Avere interesse per qualcosa e interessarsene, averne cura, sono due questioni diverse: la differenza tra l’una e l’altra è misurata dalla consapevolezza dell’importanza della questione per sé.
Purtroppo non pare esserci alcuna consapevolezza dell’importanza della sicurezza sul lavoro.
Non ne sono consapevoli gli imprenditori, altrimenti non spingerebbero i lavoratori a fare prima a rischio dell’incolumità (vedi Brandizzo), non toglierebbero i presidi di sicurezza dai macchinari per ridurre i tempi di lavorazione (ricordate Luana D’Orazio?) e cosi via.
Non ne sembrano consapevoli i lavoratori, che sanno di dover mettere imbragatura e casco mentre stanno sui ponteggi, ma spesso non li mettono, sanno che è obbligatorio essere autorizzati prima di salire sui binari per la manutenzione, ma pur di lavorare accettano di cominciare il lavoro prima che arrivi l’autorizzazione.
Non interessa agli uffici deputati alle ispezioni: se non sono destinati ispettori per i controlli non è certo colpa loro: si controlla ciò che si può, consapevoli che l’incidente può succedere ovunque ed in ogni momento, ma la responsabilità non può ascriversi ad un ufficio svuotato di risorse e senza mezzi.
Non interessa al politico, disposto ad approvare una legge da rivendicare in TV, ma indisponibile a perdere i voti delle imprese incrementando realmente i controlli per fare applicare le leggi. Né vuol perdere i voti dei lavoratori lasciati a casa da un’azienda che chiude, non accettando la riduzione dei margini di profitto.
Questo disinteresse per la sicurezza è solo in parte una scommessa sulla propria fortuna; è più uno dei sintomi del diffuso schiacciamento sul presente: qlla domanda “e se domani..?” “Spesso si risponde “ci penserò domani”.
Ma allora la battaglia per la sicurezza va combattuta in sede formativa. Non solo durante l’addestramento sul lavoro, o nella formazione continua. Deve iniziarsi a scuola. Da bambini.
Anche perché la cultura della sicurezza non riguarda solo la sicurezza sul lavoro, ma anche la sicurezza stradale, la sicurezza dei consumatori e questo sforzo va fatto dallo Stato, perché la società di oggi vive di effimero. Altro che sicurezza!
Se ci sarà consapevolezza , dell’importanza della sicurezza, allora cambierà tutto l’approccio.
Ma serve una forza politica che si faccia carico di questo bisogno di consapevolezza, perché, come si diceva sopra, al momento pare che in giro non interessi a nessuno. Al di là dell’ipocrisia delle dichiarazioni.
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La Democrazia, il governo del Popolo, funziona bene tra uguali. Una società è danneggiata dalla presenza di persone troppo povere come dalla presenza di persone troppo ricche, perché nell’esprimere la propria volontà, i propri voti, chi è troppo povero è ricattabile e chi è troppo ricco ha la concreta possibilità di cambiare le regole (durante la partita) quando e come vuole.
L’obiettivo centrale è curare la società dagli eccessi, dalla miseria e dalla opulenza, anche perchè storicamente l‘equilibrio è il presupposto delle società più sviluppate, più armoniche, più felici.
Ma l’uguaglianza non può essere né totale né imposta dall’alto: le persone non sono tutte uguali, anzi sono tutte diverse l’una dall’altra: differenze di tutti i generi, gusti, desideri, sensibilità. C’è chi vuole disporre di più cose – e per questo è disposto a un maggiore impegno – e chi preferisce più tempo libero. Ci sta. C’è anche chi parla di merito, ma questo termine ha senso solo a parità di condizioni e nell’ambito di processi semplici, senza condizionamenti esterni, condizioni che nelle complesse realtà sociali non si verificano mai.
È giusto che chi vuole impegnarsi di più sia libero di farlo e di raccogliere il frutto del proprio lavoro. Però la libertà di fare di più, se non è regolata, spinge naturalmente verso l’inasprimento delle disuguaglianze: chi ha ottenuto un vantaggio tende a stabilizzare i risultati ottenuti, magari per trasferire questi risultati ad altri, i figli per esempio, che così possono avvantaggiarsi anche senza sforzi propri.
Qui deve intervenire la spinta riequilibratrice dello Stato, per evitare che la ricchezza diventi un vantaggio incolmabile. Per questo la Costituzione dice che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Tutti hanno diritto a scuole pubbliche e ad università gratuite e funzionanti, perché tutti hanno il diritto di concorrere alla pari ai ruoli sociali di maggiore responsabilità e prestigio.
Tutti hanno diritto al lavoro – pagato tanto da poterci vivere dignitosamente – per avere un ruolo attivo al funzionamento della società.
Tutti hanno diritto a cure mediche gratuite tempestive e di buona qualità, per essere liberi dal timore che una malattia non possa essere curata o li porti alla rovina propria e delle proprie famiglie.
Sappiamo che il progetto della Costituzione non si è mai realizzato appieno per la resistenza di settori politici e sociali conservatori, ma tale obiettivo rimane il nostro per questo XXI secolo, anzi oggi è più urgente ed è anche più raggiungibile per effetto delle enormi innovazioni tecniche avvenute.
Alcune riforme sono diventate urgenti, per evitare che l’acuirsi delle sofferenze sociali porti ad una situazione irriformabile. Il fatto che non ci siano alternative risulta naturalmente inaccettabile per chi nell’attuale stato di cose sopravvive a malapena.
Ma per realizzare qualsiasi riforma bisogna ricostruire la macchina della Repubblica: Stato Regione ed Enti locali. E’ attraverso queste strutture che si possono mettere in atto i cambiamenti necessari. Serve un settore pubblico che funzioni veramente, dalla Sanità alla Scuola, all’Assistenza sociale, alla manutenzione del Territorio, alle funzioni di controllo. Oggi non è così. Le amministrazioni pubbliche da più di 30 anni sono state messe nelle condizioni di non funzionare, disattivate: il blocco del turn over ha ridotto e fatto invecchiare il personale e questo stesso personale spesso non ha fruito di aggiornamenti e formazione. La peggiore politica clientelare ha fatto di tutto per infiltrarlo e condizionarne impropriamente l’attività.
Le pubbliche amministrazioni devono tornare nelle condizioni di funzionare, essere messe in grado di utilizzare al meglio le tecnologie dell’informazione e per questo servono funzionari pubblici giovani e preparati, selezionati con concorsi pubblici e destinati a rimanere impiegati stabilmente, al fine di disporre di organizzazioni efficaci al giusto costo.
Certo la riattivazione della macchina pubblica ha un costo non indifferente.
Che fare? Bisogna invertire la rotta: ad oggi Stato ed enti pubblici non riscuotono il necessario per funzionare e in più spendono troppo per acquistare beni e servizi, spesso di cattiva qualità. Il dissesto della macchina pubblica non era inevitabile e non è stato casuale. Neutralizzare gli uffici pubblici é stato funzionale alla riduzione di tutti i controlli: sulla riscossione dei tributi, sul rispetto degli spazi e dei beni comuni, sull’ambiente.
Per finire, la neutralizzazione degli Uffici pubblici è servita per offrire all’economia privata proficue occasioni di guadagno, sostituendosi al Pubblico: dalla Sanità alla Scuola, dalle Università alla distribuzione dell’acqua alla mediazione tra domanda e offerta di lavoro, financo alla vigilanza del territorio. Inoltre la politica usa gli uffici pubblici per coltivare il consenso, ponendosi come rimedio “ad personam” per superare le lungaggini burocratiche create dalla stessa politica con norme ambigue, quando non contraddittorie.
La riappropriazione di spazi di attività da parte del settore pubblico non significa negazione dell’iniziativa privata. Questa, se operata nel rispetto dei diritti dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente è un elemento prezioso di pluralismo e di autonomia individuale. e come tale può svolgere un’importante funzione nell’innovazione dei prodotti e dei processi. Essa non deve essere caricata di costi di assistenza, che devono essere pubblici perché universali e non deve essere assistita da fondi pubblici sotto forma di contributi a fondo perduto, di agevolazioni incondizionate e di altri supporti che gravanti sulla spesa pubblica.
Inoltre l’iniziativa privata sarebbe avvantaggiata da una macchina pubblica efficace, da controlli veloci, capaci di bloccare le forme di concorrenza sleale e da una veloce e precisa amministrazione delle controversie.
Seguiteci. vi proporremo le nostre priorità.
Noi che viviamo del nostro lavoro Siamo sotto attacco da anni, da parte delle classi dirigenti: manager, grandi imprese ed intellettuali al seguito:
- hanno reso precario il lavoro: ci pagano meno e hanno cancellato la maggior parte dei diritti;
- hanno ridotto le pensioni e cominciano a pagarcele molto dopo;
- hanno ridotto quantità e qualità dei lavori pubblici: crollano ponti e viadotti, le strade non sono manutenute, gli argini dei torrenti non sono controllati;
- hanno ridotto quantità e qualità dei servizi sanitari: i medici di base hanno troppi assistiti e si trasformano sempre di più in impiegati amministrativi; hanno chiuso molti ospedali pubblici ed hanno esternalizzato molti servizi di diagnosi e di terapia; i posti di pronto soccorso sono sottodimensionati;
- hanno ridotto quantità e qualità dei servizi scolastici: classi troppo numerose, troppo pochi insegnanti troppi dei quali precari ed hanno trasformato le scuole pubbliche in aziende, e le ospitano in locali fatiscenti e inadeguati;
- non fanno funzionare gli uffici pubblici: gli impiegati vanno in pensione e non vengono sostituiti da giovani, in più i nuovi assunti non vengono né selezionati né formati; così i controlli non si possono fare e quando fatti sono fatti in modo sbilanciato e iniquo;
- le università pubbliche sono impoverite e lasciate nelle mani di baroni che gestiscono l’ingresso dei giovani; moltissimi dei nostri migliori giovani ricercatori vanno all’estero;
- aumentano le sovvenzioni per le imprese e poi tante di queste spostano gli impianti all’estero e chiudono gli stabilimenti, licenziando il personale;
- aumentano la spesa militare e mandano armi in teatri di guerra, senza lavorare per la pace;
- mantengono imposte e tasse ingiuste sui lavoratori e sui piccoli negozianti e riducono le imposte sui più ricchi e sulle grandi imprese;
- ignorano le ingiustizie nel mondo in Palestina, Iran, Turchia, e ignorano gli attacchi alla libertà come a Cuba e in Venezuela. L’unico criterio di valutazione è la volontà degli USA, o in subordine, la volontà delle burocrazie Europee espressione delle cultura dell’arbitrio dei mercati.
Come si vede è difficile rispondere a tutti gli attacchi: ci sono arrivati da tutte le parti e su mille punti diversi.
Dobbiamo cambiare schema: ottenere una società armoniosa in cui tutti abbiano pari opportunità e in cui nessuno sia abbandonato alla miseria.
Per farlo c’è bisogno – adesso- di un’organizzazione che ci rappresenti e che funzioni. Non abbiamo bisogno di uomini o donne della provvidenza, abbiamo bisogno di coordinarci e di farci avanti tutte e tutti, mettendo da parte le differenze di metodo, per trovare modi di lotta che ci mettano d’accordo e focalizzando la nostra attenzione sulle priorità.
Non lasciamo che continuino a spogliarci di tutto.
Da ormai due anni non si sente parlare di altro che di Superbonus 110% Ma lo si fa in modi che creano una grande confusione nell’opinione pubblica e anche tra le persone direttamente interessate.
Proviamo a chiarire di cosa si tratta e soprattutto di cosa non si tratta, facendo rapidamente una carrellata su tutti gli intoppi che questo provvedimento ha incontrato nel suo percorso.
CHE COSA E’
Il superbonus 110% è un incentivo basato sulla detrazione fiscale; in pratica lo Stato riconosce al proprietario dell’immobile in ristrutturazione una detrazione fiscale sull’importo dei lavori eseguiti.
Tale detrazione ammonta al 110% del computo dei lavori e viene rimborsata in cinque quote annuali di pari importo.
L’utente può dunque:
- Recuperare l’intero importo pagato maggiorato dell’incentivo del 10%, detraendo il totale dalle tasse che pagherà nei successivi cinque anni;
- cedere il credito derivante dall’importo pagato, ottenendo una quota leggermente superiore all’importo stesso;
- non pagare affatto l’importo dei lavori, ottenendo lo sconto in fattura dall’impresa che, a sua volta, recupererà il credito direttamente, o lo cederà di nuovo.
Questo primo passo ci fa già capire che per il superbonus lo Stato non esborsa neanche un euro, in quanto sia il 100% dell’importo speso sia il premio del 10% in più, saranno recuperati dal proprietario dell’immobile attraverso la detrazione fiscale su quanto si dovrà versare nei successivi cinque anni. Lo Stato quindi non immette sul mercato denaro proprio per pagare il Superbonus, ma si limita a non riscuotere imposte future. Però con l’operazione si genera un grande Incremento di redditi di impresa e di lavoro che incrementeranno la massa imponibile.
Qualcuno potrebbe dire che i soldi non incassati dallo Stato equivalgono a soldi spesi. Ma in pratica i fondi messi in circolazione sono stati immessi dai privati o dalle imprese che hanno concesso lo sconto in fattura. In moltissimi casi per disporre dei liquidi necessari ai lavori ci si rivolge alle banche
Il Superbonus nasce nel 2020 in pieno lockdown, che aveva fatto crollare l’economia di tutti i paesi del mondo. Il Governo italiano si è quindi trovato a dover erogare ristori per far fronte alle perdite economiche subite dalle imprese.
Per il Superbonus furono stanziati 55 miliardi da detrarre dalle entrate 2021 – 2025 ma, quali entrate ci sarebbero state senza incentivi? L’idea fu quella di indurre i privati ad investire subito per ottenere detrazioni in futuro.
Ma passiamo ora all’altro aspetto a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio
CHE COSA NON E’
Il Superbonus non finanzia qualsiasi ristrutturazione, non è una semplice ritinteggiatura e non è neanche un semplice miglioramento degli stabili!
Il Superbonus è un intervento complesso che deve obbedire a regole precise:
- si deve realizzare almeno un intervento “Trainante” per poter realizzare dopo gli interventi trainati;
- ci deve essere un miglioramento energetico di almeno due classi;
- si devono usare materiali certificati, marchiati CE e a basso impatto ambientale;
- si devono rispettare i massimali e i tetti di spesa imposti per ogni singola lavorazione;
- i prezzi delle lavorazioni devono essere congrui con gli studi di mercato sui prezzi medi, espressi nei tariffari regionali o del Genio Civile;
- oltre ai tariffari i prezzi devono essere verificati rispetto a massimali generici che riguardano il prezzo unitario dei prodotti o dei materiali utilizzati;
- gli importi delle parcelle non sono decisi dal professionista ma vengono calcolati attraverso i parametri di un decreto legge;
- ogni S.A.L. deve essere asseverato presso ENEA;
- dopo aver ottenuto il nulla osta di ENEA, prima di inoltrare la pratica all’Agenzia delle Entrate, è necessario apporre il “Visto di Conformità”;
- sia l’Asseveratore che il Commercialista che appone il Visto devono avere copertura assicurativa che garantisca l’intero importo dell’opera;
- per gli 8 anni successivi all’opera, ENEA e AdE faranno controlli incrociati, quindi anche le polizze assicurative dovranno avere tale durata;
- fuori catalogo, le banche pretendono il “doppio controllo” su tutte le asseverazioni.
Un provvedimento di tale complessità comporta capacità elevate di chi progetta e dirige l’opera, capacità di realizzazione di chi l’opera la deve eseguire, qualità dei materiali e degli impianti di livello superiore.
Tutto questo, insieme alla scarsa reperibilità di materiali e maestranze fa salire il prezzo della realizzazione.
E’ fisiologico, è una legge del mercato “all’aumentare della domanda aumenta il prezzo”. L’esplosivo lancio del Superbonus ha spinto i produttori di semilavorati a incrementare la loro produzione, facendo salire la richiesta di materiali e, conseguentemente, il prezzo dei prodotti, da qui le pesanti accuse rivolte al provvedimento tacciato come “la più grande speculazione edilizia”.
Ma c’è un altro elemento da considerare: chiunque lavori in ambito superbonus viene pagato a “success fee” ovvero a risultato raggiunto.
I S.A.L. (stato avanzamento lavori) vengono saldati solo dopo il loro raggiungimento, solo dopo le asseverazioni e solo dopo il visto di conformità.
CHI PAGA?
Solo allora il Fisco immette crediti sul “Cassetto Fiscale” di ognuno degli operatori.
E QUINDI?
Qui sopra viene un elemento ulteriore da cui nasce la speculazione.
Fino alla quantificazione del credito di imposta non c’è stato passaggio di denaro ma ora bisogna trasformare i crediti in moneta e come avviene questo?
Sono state narrate storie fantasiose che parlavano di “soggetti” i quali, dovendo pagare molte tasse, convertivano i crediti alla pari guadagnando quel 10% promesso dallo Stato (piccola nota, nel “cratere sismico”, cioè nelle aree del centro Italia maggiormente colpite da fenomeni tellurici, il credito di imposta sale dal 110 al 160%). Però ci sono in ballo tantissimi soldi e tutti vogliono realizzare subito. Naturalmente tra tutti chi ci riesce sono le banche.
Le banche, infatti, da diversi mesi, e cioè dall’emanazione del “decreto antifrodi”, hanno sospeso l’acquisto del credito, costringendo i pochi operatori ancora attivi a cedere il credito a “General Contractor” a soggetti cioè che hanno a loro volta accordi con le Banche e che dispongono quindi di “Plafond” sostanziosi.
Da qui l’affermazione che i 33 miliardi stanziati sarebbero stati accaparrati dai vari General Contractor.
Questi soggetti vanno praticamente in deroga ai paletti stabiliti dal Governo e soprattutto dalle Banche riuscendo a semplificare le procedure di accesso al credito e chiaramente non lo fanno alla pari, come il provvedimento pretendeva che succedesse, ma con ricavi intorno al 20 – 25% in rapida salita (niente di nuovo: un famoso finanziatore prima del Superbonus prendeva il 33%).
Imprese e tecnici sono costretti quindi a lavorare al 75 – 80% della loro parcella con pagamenti che stanno sulla media dei 60 – 90 gg.
Però tra gli addetti al settore circola con insistenza la notizia che la quota destinata alle imprese scenderà rapidamente fino al 60%.
Ricapitolando quindi lo Stato negli anni 2020 – 2022 non ha versato un centesimo ma ha solo rinunciato a delle entrate che non avrebbe avuto senza il Superbonus. Di contro sempre negli anni 2020 – 2022, tutti coloro che hanno percepito incassi grazie al Superbonus hanno creato reddito sul quale hanno dovuto o dovranno versare tasse e contributi.
Quindi non solo lo Stato non ha speso ma ha addirittura incassato cifre più alte di quelle alle quali avrebbe presumibilmente rinunciato.
Il Superbonus quindi crea occupazione, produce reddito (PIL) e se fatto bene migliora il patrimonio immobiliare tanto da renderlo più resistente ai numerosi terremoti e meno energivoro, partecipando a quella transizione ecologica di cui si parla.
Ma il Presidente del Consiglio dei Ministri ha trovato utile battezzare “truffa” il Superbonus, dando il via alla serrata delle Banche che sta mettendo seriamente a rischio di fallimento più di 30 mila imprese in tutta Italia.
Ad oggi la situazione è drammatica: cantieri aperti e non conclusi, imprese che rischiano il fallimento, delusione serpeggiante tra i cittadini che si erano illusi e che ora vivono l’amara esperienza di un blocco di cui non capiscono i motivi e di cui non vedono la scadenza, inoltre TV e giornali, unitamente schierati contro il provvedimento spargono notizie terroristiche col risultato di confondere l’opinione pubblica e facendo odiare quello che sembrava essere un buon provvedimento di rilancio dell’economia italiana post Covid.
Chi ci guadagna?
Valerio Iannuzzi
Vi sarete accorti che nella nostra società ci sono cose che non vanno bene.
In tanti si sono esercitati ad elencarle, per convincere chi ascolta di avere capito i suoi bisogni.
Sulle soluzioni invece si tende a glissare, perchè necessariamente le proposte accontentano alcuni e scontentano altri.
Il risultato sono personalità e gruppi politici che criticano gli altri e sorvolano o mentono sui propri insuccessi.
La questione è pesante e difficile da risolvere, perchè i cambiamenti da fare sono imponenti: la Repubblica italiana (Stato+Regioni+enti locali) preleva in imposte e tasse molto di più di quanto restituisca in servizi al cittadino. Questo perchè una parte consistente di imposte e tasse vanno a restituire quote di debito contratto coi privati e a pagare interessi a tassi di mercato.
In più per pagare quelle imposte non viene chiesto a tutti lo stesso #sacrificio:
lavoratori dipendenti e pensionati pagano tutto. Imprenditori e liberi professionisti in parte: i lavoratori a partita iva pagano tutto; i piccoli professionisti e le microimprese si fanno uno sconto più o meno consistente; i grandi studi professionali e le imprese medie e grandi, che possono fruire di competenze piu importanti per ridurre le imposte, pagano poco. e si lamentano più di tutti.
Per finire la rassegna, la spesa pubblica segue una ripartizione altrettanto iniqua: il welfare pubblico viene amministrato col contagocce. Scuola e sanità pubbliche, pensioni e servizi ai meno abbienti sono sottoposti a tagli continui di fondi e peggioramenti qualitativi e quantitativi dei servizi. Classi scolastiche di trenta e piu alunni, Ticket per i farmaci, tempi biblici per gli esami diagnostici, riduzione di posti letto, pensioni piu basse, ottenute sempre piu tardi
Invece la spesa pubblica per le imprese – specialmente quelle grandi – è considerata spesa virtuosa e produttiva , perchè le imprese danno lavoro e quindi agevolazioni, sovvenzioni, concessioni e contratti pubblici convenienti (per le imprese).
Il tutto mentre negli uffici pubblici marchiati come covi di #fannulloni, non vengono assunti giovani (o se vengono assunti, sono #precari e ricattabili e gli anziani non vengono fatti aggiornare e studiare. Pare che la politica faccia il possibile perchè gli uffici pubblici non funzionino bene. Cosicché quando i funzionari hanno rapporti coi privati pendano dalle labbra del consulente o del fornitore.
In conclusione, viviamo in una società sbilanciata e diseguale, che si muove per diventare ancora piu sbilanciata ed ancora più diseguale, però a dirlo si passa per estremisti o populisti.
Queste cose vanno spiegate ai cittadini. Solo quando gli elettori capiremo che nessuno può salvarci se non cominciamo ad interessarci noi stessi di politica, solo allora potremo capire che bisogna cambiare proprio tanto e che c’è veramente tanta gente che non vuole proprio che le cose cambino.
l tema delle pensioni, già in discussione da decenni e oggetto di ulteriori aggiustamenti nelle intenzioni del Governo è uno di quei temi chiave che modificano profondamente il funzionamento della società. Le prime riforme delle pensioni andavano a correggere situazioni di squilibrio evidente che avevano consentito ad alcuni lavoratori e lavoratrici di andare in pensione in un’età di grande vigore e di piena capacità lavorativa, tanto che le stesse persone spesso andavano a svolgere altri lavori in autonomia, sommando i nuovi redditi alla piccola rendita acquisita con la baby pensione.
Le ulteriori restrizioni del sistema previdenziale, anche quelle attualmente in discussione, cercano fondamento sull’innalzamento delle aspettative di vita degli italiani, che, sommato alla drastica riduzione delle nascite, stanno comportando un progressivo invecchiamento della popolazione.
Il ragionamento suona pressappoco così: giacché le fasce d’età attualmente in produzione sostengono numeri di persone pensionate molto superiori rispetto a quanto avveniva in passato e poiché il rapporto tra persone produttrici e persone in pensione è destinato a ridursi ulteriormente e progressivamente nel futuro, bisognerebbe porre rimedio, aumentando l’età di pensionamento, per ridurre il numero degli anni in cui la persona vivrà di pensione e per ridurre il peso dei pensionati sui produttori.
Il ragionamento che ho provato a descrivere appare convincente, ma parte da un presupposto dato per scontato: l’invarianza della capacità produttiva delle persone nel tempo, anche in tempi lunghissimi: come se un lavoratore che operava nel 1970 producesse quanto un lavoratore che opera nel 2020. Solo che questa equivalenza non è vera: chi guardi al lavoro negli uffici o nelle fabbriche, nella logistica o nelle vendite si rende conto facilmente di una realtà assolutamente vistosa: grazie alla innovazione tecnologica un lavoratore dei nostri tempi produce una quantità di beni o di servizi enormemente superiore a quella prodotta da un lavoratore di cinquanta anni fa.
Oggi a mandare un messaggio a migliaia di clienti basta il tempo di scrivere ed inviare un messaggio di posta elettronica. Lavoro che può fare una sola persona (due se il lavoro viene supervisionato). Bastano un paio d’ore di lavoro per scrivere il messaggio, se il messaggio è articolato e importante, e bastano pochi secondi per inviarlo.
Negli anni settanta bisognava stampare le lettere, imbustarle e portarle nel luogo di spedizione. Lì sarebbero state spedite nei luoghi di destinazione, dove sarebbero state distribuite. In caso di migliaia di destinatari si può parlare del lavoro di decine di persone , in qualche caso di centinaia.
I miei coetanei ricorderanno che il modello di vendita per corrispondenza una volta erano i cataloghi “Vestro” e “Postal Market” , oggi sostituiti da “Amazon” o “Alibaba” (per i quali oggi appare primitivo anche il sistema di ordine tramite posta elettronica).
Le fabbriche di Fiat ed Alfa Romeo degli anni Settanta con gli attuali impianti di Melfi non hanno confronti, se non, forse, nel trattamento degli operai. Quante automobili uscivano al giorno da una catena di montaggio e quante ne escono oggi? Impiegando quante persone?
Se quanto ho descritto è vero, allora la questione va posta diversamente: oggi e con l’attuale livello di strumentazione tecnologica, il sistema economico quante persone inattive può mantenere? E che età devono avere queste persone? La domanda relativa all’età non deve stupire: Oggi il sistema mantiene in produzione una parte delle persone – gli adulti occupati – mentre mantiene inattive altre persone: minori in età prescolare e scolare, inoccupati, disoccupati, pensionati. Inoltre il progresso delle tecniche induce a ritenere che il numero degli occupati potrebbe ulteriormente ridursi. I processi di automazione nelle fabbriche e l’auspicato impiego massivo della rete Internet nella gestione delle relazioni con le pubbliche amministrazioni, come è già avvenuto con le banche e altre aziende produttrici di servizi, va in quella direzione: ci sarà meno bisogno di lavoro umano.
Che le persone siano educate e formate nei primi anni della vita è cosa utile per loro e necessaria per la società, che con la scuola può dotarsi di cittadini che condividono norme di comportamento condivise (l’esperienza ci insegna che non è sempre vero che l’educazione familiare consegua modelli di relazione sociale desiderabili) quindi è assolutamente opportuno che la prima gioventù sia spesa nella formazione delle persone, che incidentalmente, se meglio formate, saranno anche produttori più capaci e consumatori più educati. Si potrebbe quindi immaginare di far studiare per più tempo i ragazzi e le ragazze.
Ma ad un certo punto sarebbe bene per la società (oltre che per loro) che i ragazzi potessero effettivamente lavorare e guadagnare in modo da affrancarsi dalle famiglie di origine e magari avviare una nuova famiglia con partner e figli. Ad oggi invece abbiamo percentuali inaudite di disoccupazione giovanile: tanti giovani adulti non hanno occupazione e se ce l’hanno si tratta di occupazione precaria, a volte estremamente precaria e spessissimo malpagata. Tantissimi giovani sono imprigionati in quella categoria dei working poors (lavoratori poveri) e non possono rendersi autonomi dalle famiglie di origine. Questa situazione ovviamente deprime la demografia del paese.
A questo punto sorge spontanea alcune domande: a chi giova mantenere inattive o sottoccupate persone di venti o trenta, o quarant’anni e, insieme, mantenere al lavoro persone ultrasessantacinquenni, fisicamente meno efficienti, meno elastiche nell’acquisizione di nuove modalità operative e, spesso, meno motivate? Per quanto tempo potranno protrarsi politiche che comprimono progressivamente la natalità, impedendo la formazione di nuove giovani famiglie? Dobbiamo immaginare un futuro in cui si entra nel mondo del lavoro a quarant’anni e se ne esce a settanta? Settantacinque anni?
Solo che per muoversi nella direzione di far entrare “in produzione” gli adulti giovani e farne uscire gli adulti anziani, bisognerebbe incrementare la spesa pubblica e coprirla con un incremento del volume delle entrate tributarie. Ma il carico dei tributi sui cittadini è già molto lalto. Per aumentare le entrate tributarie, senza rendere eccessivo il carico sui contribuenti, sarebbero indispensabili alcune riforme molto profonde: una riforma della fiscalità orientata ai redditi delle persone fisiche, seriamente progressiva ed orientata ad una lotta all’evasione seria, utilizzando efficacemente l’incrocio dei dati già in possesso delle amministrazioni pubbliche; una effettiva semplificazione delle norme fiscali, per evitare dinamiche elusive e una riforma della contabilità della redistribuzione. Trovare cioè una nuova organizzazione pubblica della previdenza che porti alla trasformazione dell’INPS da ente autonomo a ufficio statale e che affidi la copertura delle pensioni alla fiscalità generale. Direttamente sul bilancio dello Stato, eliminando contemporaneamente i contributi previdenziali così come li conosciamo oggi e riducendo il carico fiscale sul lavoro.
Così si interromperebbe la connessione tra lavoratori finanziatori del sistema previdenziale e pensionati fruitori, facendo entrare nel ruolo di finanziatori del sistema pensionistico i percettori dei redditi più alti, che tra evasione, ed elusione fiscale – anche promossa dalle riforme e dai condoni berlusconiani e leghisti – da tempo si sono visti ridurre l’imposizione fiscale.
Il processo di riforma che si ipotizza dovrebbe mantenere tutta l’attenzione necessaria alla tenuta dei saldi di finanza pubblica, ma – salvaguardando i redditi medi e bassi – dovrebbe ricercare nelle maggiori entrate tributarie, più equamente distribuite, il suo riequilibrio.
Per chiudere un ultimo accenno alla lotta all’evasione: non si capisce perché non si indichino degli obiettivi quantitativi nel recupero dell’imponibile fiscale, cui legare benefiche riduzioni di aliquote per tutti i contribuenti. “Pagare meno pagare tutti smetterà di essere uno slogan quando sarà chiaro quanto si pagherà di meno quando una quantità predefinita di evasione fiscale sarà riportata nella legalità.
Il dubbio è che nell’eterno corteggiamento agli elettori più scaltri, la lotta all’evasione sia un pio desiderio da raccontarsi a mo’ di favola ai bambini per le sere invernali.
Al 31 Dicembre 2020 sono state segnalate all’INAIL 554.340 denunce d’infortunio, di cui 1270 con esito mortale
Nei primi tre mesi di quest’anno le denunce di incidenti mortali sono state 185, 19 in più rispetto alle 166 denunce registrate nel primo trimestre del 2020. Un incremento maggiore dell’11,4%.
Con questi numeri non possiamo parlare di disgrazia, di casualità. Semplicemente si è affermato un inconfessato modo di vedere. Una cultura che considera accettabile per il nostro sistema produttivo che ogni tanto qualcuno ci lasci la pelle.
La CGIL ha presentato un progetto di legge di iniziativa popolare: “Carta dei Diritti Universali del Lavoro ovvero nuovo Statuto delle Lavoratrici e dei Lavoratori” e anche la politica non è stata immobile: ha prodotto importanti leggi sulla sicurezza sul lavoro. Intanto si continua a morire. Meno durante le fasi peggiori della pandemia, ma adesso, con la ripresa di più intensi ritmi di produzione, gli incidenti sono tornati ad aumentare. Cosa si può fare?
Di certo aumentare i controlli. Sono insufficienti da tanto. Migliaia di ispettori sono andati in pensione negli anni e non sono stati sostituiti. Durante gli anni il sistema pubblico dei controlli è stato depauperato da una politica più attenta alla spesa pubblica che ai servizi pubblici. Oltretutto la funzione pubblica di controllo delle attività produttive non è particolarmente apprezzata dal mondo delle imprese, ancor di più perché, insufficiente per carenza di mezzi e quindi ineguale, non riesce certo a controllare tutto e tutti.
D’altronde il rispetto delle leggi non può essere affidato solo ai controlli d’ufficio. Serve una cultura diffusa della sicurezza presso imprese e lavoratori e ai lavoratori serve la garanzia che la denuncia, ma già una richiesta di rispetto del diritto alla sicurezza, non comporti il licenziamento o la mancata chiamata.
Ma il lavoro oggi è quasi tutto precario (quando non più o meno in nero) e qui diventa complicato: come fa un lavoratore che deve “ringraziare per la possibilità di lavorare” a chiedere che un macchinario abbia tutte le protezioni previste dalla legge?
La difesa di alcuni datori di lavoro nelle microimprese, quando dicono che loro lavorano nelle stesse condizioni dei propri dipendenti è debole, inconsistente. Loro possono scegliere. I dipendenti?
I controlli sono quindi necessari, ma allo stato insufficienti. Lo ha riconosciuto il presidente del consiglio Mario Draghi che si è impegnato ad assumere 1084 nuovi ispettori del lavoro. Sempre troppo pochi in rapporto a quelli andati in pensione negli anni scorsi, ma già un primo passo. Basta?
Probabilmente no. Rimane indispensabile il rispetto per le persone che lavorano, per gli altri e per sé stessi. È necessario creare – oramai quasi dal nulla – una cultura dei diritti delle persone sul lavoro, una cultura del rispetto delle persone e dei loro corpi, perché a ben vedere il problema serio è che il culto dei beni, della ricchezza e degli utili delle imprese, ha superato (e pure di tanto) il culto della persona. Come si spiegherebbe altrimenti la mancanza di attenzione non solo per chi lavora, ma anche per chi consuma. Su questo versante, citiamo solo le polemiche sulla leggibilità delle etichette dei prodotti di largo consumo.
Ma se conveniamo sulla necessità di una spinta forte della cultura diffusa del rispetto delle persone e quindi della sicurezza e della qualità del lavoro e dei prodotti. Chi dovrebbe farsene promotore? Quali agenzie dovrebbero produrre questo cambiamento?
Dovrebbe farsene promotrice la Repubblica e quali agenzie più efficaci della scuola e della televisione? La scuola si è già caricata della diffusione della educazione civica, che da poco ha ricevuto una spinta importante. La televisione è potente, potentissima presso tutti i segmenti sociali a culturali.
Percorsi possibili ce ne sono. Se ne possono immaginare altri.
C’è La volontà?