Da circa 20 anni lavoro con bambini, ragazzi e adulti fragili. Persone italiane o immigrate che per un motivo o per l’altro spesso si trovano ai margini della nostra società. Invisibili alla maggior parte di noi ma che hanno bisogni a cui occorre dare risposta. Negli ultimi 5 anni mi occupo della direzione organizzativa di una piccola cooperativa sociale milanese che gestisce un centro diurno per persone disabili e alcuni centri per minori con autismo. Mai avrei immaginato di vivere un’emergenza sanitaria nazionale, una pandemia globale. Insieme alle colleghe e ai colleghi della cooperativa ci siamo trovati a vivere una dimensione del tutto inaspettata, iniziata ormai 3 mesi fa e che dura ancora oggi. Il 10 marzo ha segnato uno spartiacque. Una delibera comunale per il contenimento del Covid ci ha costretti a chiudere tutti i nostri servizi interrompendo le relazioni di cura che intrattenevamo con i nostri ospiti. Per noi e ancor di più per loro è iniziata una dura quarantena che si protrae ancora. Ai nostri ospiti, così come ad altre 5000 persone con grave disabilità che abitano nella provincia di Milano e alle loro famiglie, la vita è stata stravolta dagli effetti del virus e dalle regole di un sistema che pur ritenendo essenziali i servizi socio sanitari ha preferito chiuderli per non correre rischi. Con fatica noi operatori abbiamo provato a far ripartire i nostri servizi immaginando soluzioni nuove e fino ad ora inesplorate. Se il mondo della scuola ha continuato a tenere i rapporti attraverso la didattica a distanza, anche nei servizi socio sanitari si è provato a non interrompere il filo relazionale con ospiti e le famiglie attraverso il lavoro da remoto. Peccato che non tutti gli amministratori pubblici, degli enti erogatori con i quali i nostri servizi sono convenzionati, ritengano questa modalità efficace dal punto di vista educativo ( a che titolo tra l’alto…). Molti colleghi si sono confrontati con sindaci e assessori che svalutavano gli interventi in videoconferenza, arrivando a disincentivarne l’utilizzo scegliendo di non riconoscere la rendicontabilità economica. In più di un comune della nostra evoluta area metropolitana si è scelto, deliberatamente durante la Fase 1,di lasciare sole le persone con disabilità e le loro famiglie per mere ragioni economiche dimostrando, ancora una volta, che non sarebbe bastato un virus a cambiare il nostro sistema. Ma gli operatori sociali hanno la testa dura e nonostante i disincentivi hanno continuato a videochiamare, arrivando a strutturare virtuali laboratori creativi, di cucina, di lettura, di trucco e parrucco. Hanno continuato a creare occasioni per entrare nelle case delle persone di cui si occupano per prendersi cura di loro, ascoltare i nuovi bisogni che emergevano e le richieste d’aiuto provenienti dalle famiglie. Se per la maggior parte di chi leggerà questo post la Fase 1 è finita da tempo, per adulti e minori con disabilità non è ancora finita. I centri restano chiusi e solo nel corso di questa settimana è arrivata la delibera regionale e le linee operative per la riapertura dei servizi per disabili. Tuttavia l’attesa potrebbe essere ancora lunga. Ancora una volta i dispositivi autorizzativi sono congegni burocratici che sembrano pensati per procrastinare le riaperture. Ancora una volta la sicurezza, richiesta legittima che viene dalle famiglie e dai lavoratori, diventa un alibi per bloccare tutto. Improvvisamente se prima il lavoro da remoto era da disincentivare ora è da preferire e chi decide di riaprire, per dare risposta ai bisogni educativi e assistenziali, dovrà dotarsi di regole e procedure che snatureranno l’anima del servizio. E’ come se i dispositivi legislativi invitassero a lasciar perdere, mortificando le aspettative delle famiglie e mettendo ostacoli alla voglia e necessità di ripartire degli operatori e delle operatrici. Nonostante tutto, sono certo che i nostri servizi riapriranno. Come educatore sono convinto che per le persone con disabilità, questa lunga permanenza a casa è un grave arretramento dal punto di vista educativo e assistenziale ma da cittadino avverto il rischio che l’arretramento possa essere sopratutto culturale. Rinchiusi in casa per il pericolo del contagio, le persone con disabilità rischiano di rimanerci per la comodità di tutti. Se prima dell’emergenza Covid faticavano ad avere visibilità e ad essere inclusi nella società, ora le persone con disabilità corrono il rischio di scomparire, privati di soggettività e cittadinanza e, come succedeva in un tempo non troppo lontano, di non essere considerate persone ma un problema privato al quale le famiglie provano ad occuparsene in solitudine.
Ostacolare la riapertura dei servizi diurni per disabili è una grave violazione dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità alla quale nessuno di noi può restare insensibile. Le vite delle persone con disabilità, in tutta la loro fragilità, non sono vite di scarto ma degne di essere vissute. Vite che vogliono essere vissute. Marco Colombelli – Direttore Organizzativo Cooperativa Sociale