Le” sette piaghe” del mondo attuale.
A partire dai primi anni novanta il mondo sta cambiando in modo sempre più rapido e profondo, a una velocità senza precedenti, e i fattori di crisi, climatica, ambientale, sanitaria, bellica, politica, economica e sociale, che spingono la sua trasformazione, determinano una interdipendenza sempre maggiore che però non trova un nuovo governo globale capace di costruire un nuovo ordine mondiale cooperativo, mostrando l’incapacità collettiva di gestire queste emergenze, favorendo così i conflitti che rendono la convivenza sempre più complessa e imprevedibile, fragile e insicura. Per comprendere l’evoluzione dell’attuale situazione occorre guardare oltre la volatilità e la confusione odierna, per individuare le prospettive e le linee di tendenza che definiranno il nostro futuro. Nei prossimi anni l’Asia guiderà la transizione dell’economia mondiale, guidandone la crescita e consolidando la posizione di potenza economica più tecnologicamente avanzata, sulla base dei mutamenti demografici, delle riforme politiche e dello sviluppo dell’innovazione.
Secondo la classifica di Standard Chartered, entro il 2030 assisteremo a una vera e propria rivoluzione nella gerarchia economica mondiale, con i primi due posti occupati da Cina e India, lasciando gli Stati Uniti al terzo posto, seguiti da Indonesia, Turchia, Brasile, Russia, Giappone e Germania, mentre Gran Bretagna, Italia, Francia e Canada, nell’ordine, usciranno definitivamente dalla classifica delle prime 10 economie mondiali. La causa di questo ribaltamento sta principalmente negli effetti sull’economia della crisi demografica dei Paesi avanzati e nella crescita della classe media nei Paesi emergenti, ma non dobbiamo ignorare le conseguenze delle crisi odierne, dalla guerra in atto, che disegna nuovi equilibri strategici, alla crisi climatica che minaccia il futuro del pianeta (con il Mediterraneo bollente e le alte temperature in Alasca e a Capo Nord, la desertificazione ed i fenomeni metereologici sempre più violenti), a quella pandemica, ancora irrisolta a causa delle sempre nuove varianti che emergono da quei due terzi del mondo che non è stato adeguatamente vaccinato e per le nuove pandemie, già in atto o attese. L’attuale attenuazione stagionale della pandemia è sempre aleatoria, come si vede dalla recente quarantena cinese, dalla comparsa di sempre nuove varianti e dalla continua esplosione di nuove epidemie, più intense e tre volte più frequenti d’un tempo, che sono zoonosi causate da attività antropiche con un forte impatto ambientale, come il vaiolo delle scimmie, Aids, Ebola e Zika.
I nuovi assetti del potere mondiale
Il fattore determinante dell’attuale crisi è che potere economico e politico sta migrando verso un’Asia in inarrestabile ascesa e l’intero Occidente non è più al centro del mondo. Si sta delineando una nuova guerra fredda fra due blocchi, quello occidentale in declino e i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), in ascesa, che rappresentano già il 42% della popolazione mondiale, il 24% del pil e possiedono le principali risorse del pianeta (fra le quali il 70% dell’alluminio, il 76% del palladio e il 28% dell’oro, indispensabili per l produzione di microprocessori). Anche Indonesia, Egitto, Argentina e Iran vogliono entrarci. Nel primo trimestre 2022 il fatturato commerciale della Russia con questi Stati, è aumentato del 38%, sostituendo gli sbocchi verso i Paesi occidentali che le hanno decretato, a proprio svantaggio, l’embargo.
Le 17 “terre rare” sono risorse strategiche non rinnovabili, e di cui la Cina detiene il quasi-monopolio, con il 62,8% della estrazione mineraria, il 36.6% delle riserve mondiali, il 90% della produzione industriale collegata, ma ne è anche il primo Paese importatore. Sono i metalli delle nuove tecnologie, indispensabili per la produzione di energia eolica, solare ed elettrica, le comunicazioni, l’industria aerospaziale e militare, la decarbonizzazione, la tecnologia verde e rinnovabile (catalizzatori industriali, magneti permanenti per la fabbricazione di turbine eoliche e auto elettriche). Hanno una valenza strategica per lo sviluppo di quei settori che saranno al centro della transizione verde dei prossimi 30-40 anni e sulle quali si svolgerà lo scontro per il predominio geoeconomico in questo secolo. Il blocco delle esportazioni di cereali sta già diffondendo un’enorme carestia che, secondo Oxfam, riguarderà a fine anno 830 milioni di persone, moltiplicando la fame africana, determinando milioni di morti e l’esplosione di nuove rivolte, la diffusione dei gihadisti e la destabilizzazione di numerosi paesi poveri, a partire dalla Libia, del Nordafrica, del Corno d’Africa e del Golfo di Guinea.
L’embargo di gas e petrolio, con la chiusura degli oleodotti, porta al razionamento e fa esplodere i prezzi dei carburanti, che investendo i trasporti, incendiano tutti gli altri prezzi (in particolare quelli agricoli e della pesca, ma anche tutte le produzioni energivore), facendo dilatare la povertà. JP Morgan ritiene probabile una triplicazione del prezzo del petrolio (dagli attuali 111 dollari a 380 al barile) e il gas è già cresciuto del 400%, mentre la Russia ottiene forti guadagni esportandoli in Cina e nel Terzo mondo a prezzi elevati. Ciò produrrà enormi disastri ecologici per la deforestazione e la riapertura delle centrali a carbone, annullando gli impegni ecologici internazionali: Biden, smentendo le promesse elettorali, ha deciso la concessione di 11 nuove licenze di trivellazione nelle zone particolarmente fragili in Alasca e Golfo del Messico.
La lotta per l’egemonia mondiale
L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (OTAN-NATO), istituita il 4 aprile ’49 col Patto Atlantico, come una collaborazione nel settore della difesa fra i suoi membri in funzione antisovietica, in realtà è stata uno strumento per il controllo dei Paesi aderenti da parte degli Stati Uniti (come il successivo Patto di Varsavia, da parte dell’Urss) che ne ha diretto e condizionato l’azione politica, anche attraverso apparati segreti (non solo la Cia, ma anche Stay behind, Gladio, ecc.), con il colpo di stato dei colonnelli in Grecia, i tentativi di golpe e le “stragi di stato” in Italia, usando i fascisti come manovalanza, per impedire l’ingresso del Partito Comunista al Governo. Con la caduta dell’Urss nel ’92, molti avevano puntato al suo scioglimento, essendo venuto meno lo scopo per cui era nata, ma i “neocons” americani l’hanno trasformata in un’organizzazione di intervento internazionale per difendere il dominio unilaterale mondiale statunitense, con gli interventi bellici in Serbia, Libia, Afghanistan, Iraq, e con moltissime altre azioni “coperte” in altri Paesi. Già negli anni ’90 un articolo su Foreign Affairs, la rivista del Dipartimento di Stato americano, sosteneva che gli Stati Uniti non avrebbero mai consentito, anche a costo di un conflitto, il sorpasso dell’economia cinese. In questo quadro il conflitto fra America e Russia in Ucraina, che colpisce pesantemente l’Europa, è solo un episodio propedeutico al vero conflitto con la Cina, teso ad impedire il suo imminente sorpasso economico globale. Si tratta di una guerra di successione (analoga a quella che seguì alla crisi dell’impero britannico, che causò un conflitto articolato nelle due guerre mondiali, da cui uscirono vincitori gli Stati Uniti, dando origine al “secolo breve” americano), determinata dalla “crisi climaterica” statunitense, iniziata già a partire dall’inconvertibilità del dollaro nel ’70 e giunta ormai all’apice. Se l’obiettivo finale degli Stati Uniti, in questo conflitto “per procura” in Ucraina, è la Cina, quello immediato è di bloccare, con la nuova “cortina d’acciaio”, la graduale autonomizzazione di Germania e Francia e la loro convergenza economica con la Russia, che avrebbe creato la più grande economia mondiale ed un altro pericoloso concorrente.
Il recente vertice di Madrid dell’Alleanza Atlantica ha operato una ulteriore svolta storica, con lo “Strategic concept” decennale, che ha dato origine alla Nato globale, sostanzialmente sostitutiva dell’Onu (come già in Serbia, Libia e Iraq), che comprende Giappone, Corea, Australia, Nuova Zelanda, come strumento di incursione planetaria in ogni Paese che non riconosca la supremazia unilaterale globale degli interessi strategici statunitensi. Considera la Russia il nemico, e la Cina “una sfida”, e costruisce una nuova “cortina d’acciaio” che circonda Russia e Cina con basi missilistiche, sottomarini nucleari e truppe di intervento rapido globale in terra, mare, aria, spazio e ciberspazio. Raddoppia il bilancio della Nato e impegna ogni Paese aderente ad investirvi in armi e uomini almeno il 2% del bilancio, quota che “deve essere vista più come un punto di partenza che un punto d’arrivo”. Ne fa parte anche il “programma 127e”, segreto e sottratto al controllo del Congresso, per operazioni coperte di “guerre per procura” in tutto il mondo. Il prezzo immediato, per l’ingresso di Svezia e Finlandia è la mano libera data alla Turchia, concedendo anche l’estradizione, per la repressione e lo sterminio dei curdi, già usati come forza fondamentale contro l’ISIS e ora traditi e venduti al loro acerrimo nemico, il dittatore islamico Erdogan: un esempio chiarissimo di cosa intendono gli Stati Uniti come “esportazione della democrazia”, già sperimentata in Iraq, Libia, Serbia e Afghanistan. Come ha ben spiegato Papa Francesco, la Terza guerra mondiale è già iniziata, con gli Stati Uniti che “abbaiano” alla Russia e sarà una guerra di lunghissima durata, ben oltre l’episodio ucraino, già preparato da anni col golpe di Maidan nel 2014, che ha innescato una guerra civile in Ucraina.
Le conseguenze sull’economia mondiale
A seguito dell’attenuazione del Covid, i forti stimoli monetari, erogati per rilanciare l’economia, avevano fatto prevedere, particolarmente in Italia, una ripresa galoppante della crescita, che avrebbe portato il Pil mondiale a superare il tetto dei 100mila miliardi nel 2022, determinando però nel contempo un’esplosione del debito globale, salito a 226 trilioni di dollari, e una fiammata dei prezzi passata da “temporanea” a “strutturale” e persistente, in una situazione di costante riduzione della crescita, soprattutto a causa delle sanzioni alla Russia.
Questa situazione che vede inquietanti segnali di recessione, ha suscitato un’ondata di pessimismo fra le istituzioni e gli operatori finanziari. La Banca Mondiale ha detto che “l’economia globale è in pericolo”. Larry Summerss, l’economista che ha previsto una “stagnazione secolare”, afferma che “non c’è stata mai un’inflazione superiore al 4% che non sia stata seguita da una recessione entro i 2 anni successivi”. Jamie Dimer, di J.P.Morgan Chase, ha detto “sento arrivare una supertempesta, un uragano economico”, mentre Jane Fraser, di Citigroup sente arrivare un “inverno brutale per i mercati”, con l’Europa in recessione e sostiene che “la festa è finita”. Ray Dali di Bridgestone spiega che “la confluenza in atto di numerosi shock che si stanno concentrando assieme non ha precedenti”. Elon Musk, di Tesla, ha detto di avere “pessime sensazioni” e perciò ha deciso di licenziare 10.000 dipendenti. Pisani-Ferry ha indicato il rischio di una tripla recessione, negli Stati Uniti, in Europa e in Cina. Le società tecnologiche continuano la riduzione di migliaia di posti di lavoro. Anche il presidente della Federal Reserve americana, Jerome Powell, nella sua audizione semestrale al Congresso, pur ribadendo che, in questa fase, l’obiettivo prioritario riguarda la dinamica dei prezzi, ha ammesso che ciò potrebbe determinare una recessione negli Stati Uniti.
La volatilità è tale per cui i dati vengono immediatamente ritoccati al ribasso e dunque è possibile solo indicare la tendenza. La responsabilità di tale situazione viene da tutti attribuita all’inflazione, che vedrà il suo picco in autunno, all’impatto degli orientamenti restrittivi di politica monetaria e alla riduzione del commercio mondiale, ma soprattutto alle sanzioni applicate alla Russia, che è una grande fornitrice di gas, petrolio e materie prime alimentari e di quelle minerarie strategiche, indispensabili per le moderne tecnologie, che destabilizzano l’economia mondiale.
La nuova economia della guerra permanente
Per i prossimi anni si prospetta una vera e propria “economia di guerra”, con ricadute negative globali sulla crescita mondiale per un lungo periodo, peggiorando la situazione in tutti i Paesi, ma le cui conseguenze non saranno uguali per tutti, portando molti Paesi in recessione, e l’Italia è tra quelli che ne risentiranno di più. L’elemento più aleatorio che inciderà fortemente sull’andamento economico è la durata del conflitto e delle sanzioni.
Il FMI prevede che le sanzioni alla Russia ridurranno la crescita globale nel 2022, “frenando l’attività economica per vari anni a venire…questo shock arriva proprio quando alcune parti del mondo stavano superando la fase acuta della pandemia. Si prevede che i consumi saranno più deboli a causa per dell’inflazione che erode il reddito disponibile, che le condizioni fiscali più stringenti raffredderanno gli investimenti e che sono a rischio 30 milioni di posti di lavoro.
Le sanzioni arricchiranno gli Stati Uniti, i cui legami economici con la Russia sono limitati, che venderanno a carissimo prezzo il proprio gas di scisto altrimenti fuori mercato, di scarsa qualità e ambientalmente devastante, e oltre il 70% degli armamenti aggiuntivi imposti ai paesi della Nato per raggiungere il 2% del Pil. La Cina è in ripresa dopo la pandemia, pur presentando un rischio di bolla immobiliare, e subirà conseguenze marginali.
Nonostante previsioni di un collasso economico della Russia, questo sembra ancora lontano, perché le sanzioni non hanno colpito la Russia. Per eludere l’embargo, e far arrivare greggio russo in Ue nonostante le sanzioni, la Russia effettua il passaggio del petrolio da una nave russa, che ha disattivato i trasponder di identificazione, a una non russa, in genere greca, dove viene diluito con altri greggi ed etichettato come petrolio kazako o del Turkmenistan. Il forte aumento del prezzo del petrolio e la forte richiesta proveniente dalla Cina e da altri Paesi, ha consentito alla Russia ingenti guadagni, aumentando il saldo della bilancia commerciale; ha imposto il pagamento in rubli (che sono stati agganciato all’oro, unica valuta mondiale, a 5000 rubli per grammo), rafforzando moltissimo il corso del rublo, a cui è agganciato anche lo Yuan cinese, mentre l’euro sta perdendo valore, aumentando i costi delle importazioni. L’obiettivo russo è quello strategico, accettato anche dagli altri BRICS (Brasile, Cina, India, Sudafrica) e da molti altri Paesi, di rendere il rublo convertibile in oro una valuta alternativa al dollaro nelle transazioni internazionali, mentre l’Arabia Saudita accetta i pagamenti in yuan, reso convertibile col rublo.
L’impatto di gran lunga maggiore delle proprie sanzioni lo subirà l’Europa, che è già arrivata al sesto pacchetto, facendo del male soprattutto a sé stessa. Preoccupa soprattutto la Germania, che è stata finora la locomotiva d’Europa, ma i cui prezzi all’industria hanno segnato un balzo annuo del 33,6%, e che ha registrato il primo deficit commerciale dal ‘91, 31 anni fa, per il calo delle esportazioni verso gli altri Paesi della UE, in crisi, non compensato dall’aumento delle esportazioni verso Cina e Russia, e perderà, al 2023, il 6,5% della sua attuale ricchezza. La Bundesbank ha avvertito che l’embargo sul gas russo costerebbe alla Germania 18 miliardi, con una crisi comparabile a quella successiva alla seconda guerra mondiale. Dunque le sanzioni ricadono innanzitutto su chi le ha proclamate, con la crisi dell’energia e delle materie prime.
Il dilemma della “stagflazione”
Come abbiamo imparato nelle due crisi petrolifere passate, gli shock esogeni determinano una situazione di “stagflazione” come negli anni ’70, ovvero di inflazione e recessione, che è difficilissima da combattere, perché la lotta all’inflazione viene effettuata con misure restrittive, alzando i tassi e riducendo il finanziamento all’economia, i consumi e l’occupazione, mentre la recessione si combatte facendo l’esatto opposto, ovvero spingendo la crescita, riducendo i tassi, reflazionando l’economia e aumentando i consumi ed i posti di lavoro. Proprio l’a stagflazione ha determinato il ripudio delle politiche keynesiane per sostenere l’occupazione e la crescita e la diffusione delle politiche neoliberiste, intrinsecamente recessive, che assumono la stabilità dei prezzi come obiettivo supremo, di lungo periodo, delle banche centrali.
L’attuale inflazione ha un carattere duplice, è da domanda negli Stati Uniti, dove i consumi si stanno surriscaldando, ma è da offerta in Europa, a causa dei prezzi di produzione (energia e materie prime) e delle strozzature negli approvvigionamenti (specie di semiconduttori, che determinano un taglio drastico delle produzioni di veicoli, e di materie prime agricole).
Le misure restrittive (come l’aumento dei tassi e la fine del Quantitative Easing, annunciata anche dalla BCE), che Guido Carli definiva la “corda del boia” che strozza l’economia, sono efficaci per raffreddare l’inflazione solo quando questa deriva da un eccesso di consumi, presente negli Stati Uniti ma assente in Europa, mentre risultano del tutto inefficaci e addirittura devastanti quando l’inflazione deriva, come avviene appunto in Europa, da impulsi esogeni, come i rincari energetici, perché provocano una forte recessione senza riuscire a frenare l’inflazione. Dunque gli strumenti tradizionali di politica monetaria non funzionano più e tutti, parafrasando Montale, vanno “impazziti alla ventura, e il calcolo economico più non torna”. Dato che i due possibili obiettivi di riduzione dell’inflazione e di crescita economica non sono perseguibili contemporaneamente, occorre scegliere a quale si intende dare priorità. Ma la stretta monetaria oltre ad essere inefficace a contenere l’inflazione importata, ha anche l’effetto di gonfiare ulteriormente i prezzi, trasferendola liquidità dall’economia reale a quella finanziaria, a vantaggio della rendita che già ne ha causato l’aumento, a scapito delle situazioni deboli, come le Pmi, i lavoratori e i pensionati.
Biden, nel solco della tradizione neoliberista, ha indicato come priorità assoluta la lotta all’inflazione, con una politica aggressivamente restrittiva, spingendo le banche centrali a ritirare gli stimoli per la ripresa, con un rialzo dei tassi e una riduzione della liquidità (degli acquisti di titoli, e dunque del credito), che porterà, secondo le stime di vari economisti, ma anche delle previsioni dei mercati, ad una recessione a livello mondiale, nel 2023-24 (che aumenterà il rapporto deficit-pil e porterà ad ulteriori strette, avvitandosi su sé stessa).
Le banche centrali non hanno aumentato gli interventi monetari per la crescita economica ma, al contrario, hanno deciso un ritiro più veloce del supporto monetario rispetto a quanto stimato in precedenza, con effetti recessivi. La prima banca centrale a indicare la strada verso la recessione, operando la stretta, è stata la Bank of England, seguita dalla FED. A fine maggio il Wall Street Journal ha definito la BCE “la banca europea dell’inflazione” perché, contrariamente alla FED e alla BoE, non aveva ancora invertito la rotta espansiva. Ma nonostante l’apparente somiglianza degli interventi negli Stati Uniti e in Europa, in realtà si tratta di situazioni completamente diverse, perché l’inflazione in Europa non dipende come in America dal surriscaldamento dell’economia, favorito dai lauti sussidi a famiglie e imprese, ma unicamente dai notevoli effetti recessivi delle sanzioni alla Russia (che aumentano i costi di importazione , anche a seguito del calo dell’euro, prossimo alla parità col dollaro) e non cesserà fino a che queste proseguiranno, e l’inasprimento delle politiche monetarie in un contesto di rallentamento della crescita induce una profonda recessione.
Lo scontro in atto in Europa fra “falchi” e “colombe”
Proprio la crescita ostinata e persistente dell’inflazione (6,95% in Italia a maggio, 8% in Germania, 5,2% in Francia e 8,1% nell’Eurozona, la peggiore dall’introduzione dell’euro e oltre 4 volte l’obiettivo statutario del 2% medio annuo), ha indotto i Paesi “frugali” a reclamare a gran voce il ripristino, con urgenza, delle politiche restrittive (i famigerati recessivi “parametri di Maastricht”, resi ancor più stringenti dal “Patto di Bilancio”, Fiscal compact, con l’obiettivo della BCE di un 2% di inflazione media annua), temporaneamente sospese per la pandemia.
Mentre la presidente della BCE, Christine Lagarde, annunciando “la fine della lunga era dell’inflazione bassa”, s’era però impegnata a non toccare i tassi di interesse per tutto il 2022, riducendo lo stimolo monetario, ma prolungandone la durata, alcuni banchieri centrali “falchi” (come il tedesco Joachim Nagel e l’austriaco Robert Holzmann) si sono opposti vivacemente a causa della lunghezza dell’impegno della Bce e della decisione di reinvestire la liquidità dei bond che arriveranno a scadenza nel 2024. Per questo la Lagarde è stata costretta ad operare una svolta improvvisa, dichiarando la fine del Quantitative Easing a luglio, assieme all’avvio del rialzo dei tassi, con un aumento il 21 luglio dello 0,25% (in aggiunta all’attuale 0,50%) e a settembre di un altro 0,50%, proseguendo poi ad altri rialzi nei mesi successivi. La giustificazione è quella di fermare l’inflazione, ma dato che questa non dipende da un eccesso di domanda ma da shock importati, la stretta non produce alcun effetto antinflattivo. Questa scelta ha spaventato e depresso i mercati borsistici, perché la fine del QE, col ritiro di tutti gli aiuti (eliminando l’APP, il fondo europeo di stabilità finanziaria, introdotto da Draghi per salvare l’euro, e mettendo il PEPP, il programma europeo di acquisto per l’emergenza pandemica, su un binario morto, con i soli rifinanziamenti a scadenza) è ritenuta una minaccia alla stabilità finanziaria e, in assenza di uno scudo anti-spread stimola gli attacchi speculativi e costituisce un rischio significativo sia di frantumazione nell’Eurozona, a causa dei differenziali dei costi di finanziamento, che di una nuova crisi del debito sovrano, particolarmente pericolosa per l’Italia.
È iniziato un sentiero di stretta monetaria che sancisce la fine, dopo 11 anni, del denaro a basso costo illimitato nella zona euro, con conseguente ulteriore riduzione delle prospettive di crescita proprio nel momento in cui si annuncia una pesante recessione. Ciò crea pesanti problemi ai paesi debitori, come soprattutto l’Italia, rendendo più difficile il collocamento dei titoli di stato, causando la svalutazione di quelli già sul mercato, e determinando maggiori oneri per interessi nelle future emissioni, facendo esplodere lo “spread”, specie in Italia, più esposta alle scorribande speculative per l’elevato indebitamento, che ammonta a 2.750 miliardi. Va osservato che il QE ha coperto il fabbisogno lordo di finanziamento italiano nel 2021, ossia i titoli (emessi per finanziare il deficit e rifinanziare i titoli in scadenza), interamente nel 2020 e parzialmente nel 2021 e nel primo semestre di quest’anno, per cui la loro cessazione determina la perdita di un compratore istituzionale decisivo per il nostro debito pubblico che avrà un impatto profondamente negativo sulla nostra economia. Tutto ciò è stato deciso senza preoccuparsi degli effetti recessivi devastanti che possono determinare, perché se il Pil cresce meno del servizio del debito (o diviene addirittura negativo) aumenta il rapporto deficit-pil e costringe a corposi avanzi primari ulteriormente depressivi, con l’aumento del “Rischio Italia”, la crescita dello “spread”, l’esplosione del costo del debito, ondate di attacchi speculativi, una fuga di capitali, mutui e investimenti più cari, un’erosione della spesa pubblica e sociale, il netto peggioramento e il fallimento di numerosissime aziende, un forte aumento dei disoccupati e un enorme aumento della povertà. Le Borse sono crollate e lo “spread” ha già raggiunto i 234 punti base, aumentando il servizio del debito e quindi il deficit di 3 miliardi e anche l’ammontare complessivo del debito, ma è solo l’inizio. Oltretutto l’Italia è stata presa in contropiede dagli investimenti a debito del Next generation Ue, effettuati anche con l’accesso ai Fondi da rimborsare, a cui vanno sommati gli interventi di emergenza a favore di famiglie e imprese per attenuare il rincaro energetico.
Il fanatismo “ordoliberista” tedesco
La Bundesbank tedesca, capofila dei “falchi”, esulta per l’aumento dei tassi, chiesto da tempo per riportare al 18% i margini di profitto delle proprie banche da tempo in sofferenza. Ma la sua richiesta di austerità ha anche una ragione ideologica. L’“ordoliberismo” tedesco differisce dal liberismo classico perché, pur essendo un “ordinamento fondato sulla concorrenza di mercato”, prevede la necessità che lo Stato intervenga, ma solo per fissare alcuni vincoli precisi, di carattere recessivo, alla spesa pubblica, per garantire la stabilità dei prezzi. A seguito del compromesso fra Köhl e Mitterrand, che consentiva la riunificazione della Germania in cambio dell’istituzione dell’euro, l’Eurozona venne costruita sul modello “ordoliberista” della Bundesbank tedesca, vietando il finanziamento monetario dei deficit di bilancio, per evitare un possibile “azzardo morale” da parte dei Paesi “cicala” che avrebbero potuto approfittare del sostegno della Bce. Il finanziamento dei debiti pubblici è delegato al mercato privato, ritenuto portatore di “aspettative razionali” e capace di punire gli eccessi di spesa con la “vendetta del mercato”, ma si tratta di una teoria del tutto infondata, perché non considera il ruolo della speculazione, che Minsky ha dimostrato essere un fattore importante di destabilizzazione.
La stabilità della moneta degli stati sovrani (anche con un debito elevatissimo come il Giappone) è garantita da un coordinamento fra le politiche monetarie della Banca centrale e le politiche fiscali di bilancio del Tesoro, mentre l’adozione di una moneta straniera (currency board) come in Argentina, risulta strutturalmente instabile perché manca il coordinamento fra il Tesoro, nazionale, e la politica monetaria straniera. L’Eurozona è una “moneta senza stato”, retta da politiche fiscali nazionali, rigidamente vincolate dai “parametri” (di Maastricht e del patto di bilancio), e da una ‘politica monetaria europea volta alla sola stabilità dei prezzi ed è paragonabile ad un “currency board”, e dunque esposta alla medesima instabilità. Già Tommaso Padoa-Schioppa aveva denunciato i rischi di una “moneta senza Stato” e Carlo Azeglio Ciampi aveva spiegato che “nel momento stesso in cui si è creato l’euro, si è infatti creata una zoppia tra politica monetaria e politica economica: essendo attribuita la prima alla Banca Centrale Europea e affidata ancora la seconda in notevole misura ai governi nazionali. Questa zoppia, che denunciammo già molto tempo addietro viene corretta con troppo lentezza”, ma la BundesBank ordoliberista riteneva che un’Europa claudicante fosse più che sufficiente a tenere il passo. La crisi del debito sovrano ha squarciato il velo di uniformità di giudizio dei mercati sulla base della moneta unica e reso chiaro che l’incompletezza sistemica dell’integrazione europea può compromettere la politica monetaria, minando la capacità di intervento della banca centrale, a causa dell’assenza destabilizzante di una Unione fiscale, che porta ad una frammentazione nazionale della moneta, non più in realtà unica a causa diversi premi di rischio sui titoli pubblici dei diversi Paesi, con la segmentazione dei mercati finanziari e di quelli bancari, che detengono una quota rilevante dei titoli di stato del proprio Paese. Ciò può determinare la rottura dell’Eurozona. Draghi ha salvato l’euro dalla rottura, con la sua famosa frase “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro, and believe me, it will be enough” (Ho un messaggio chiaro da darvi: nell’ambito del nostro mandato la BCE è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro e, credetemi, sarà abbastanza). Ha anche approntato una serie di strumenti che presentavano però, su richiesta della Buba, durissime condizionalità (come l’intervento della Troika in Grecia e il calvario che ne è derivato), ma il semplice annuncio ha calmato i mercati. Gli interventi per il Covid hanno segnato un primo momento di mutualizzazione del debito, con la sospensione del Patto di Stabilità e la quasi eliminazione delle condizionalità, assicurando il soddisfacimento integrale della domanda di fondi a tassi negativi, ma non si trattava di una svolta epocale, ma solo di un’eccezione temporanea. Così nel “venerdì nero” i “falchi”, o piuttosto gli avvoltoi, sono tornati all’attacco, chiedendo il ritorno ai parametri del Patto di stabilità e ora si aggirano già sull’Italia, per farne una facile preda.
Joachim Nagel, presidente della Buba, che s’era a suo tempo opposto alla sospensione temporanea del patto di Stabilità, ora si oppone alla sua proroga fino al 2023 e alla realizzazione di uno allo scudo antispread di contrasto alla frammentazione, proposto dalla Bce, che costituirebbe un elemento chiave a supporto del settore bancario ed ai Paesi in difficoltà. Ha sostenuto che gli interventi antispread, che limitano i premi anti rischio, sono sbagliati perché non bisogna considerare i movimenti a breve sui mercati finanziari ed è impossibile distinguerli da quelli giustificati dai fondamentali. Esclude comunque ogni finanziamento monetario ai governi ed ogni flessibilità negli interventi, per cui vuole il ripristino del “capital key”, ovvero degli acquisti di titoli in proporzione alle quote di ciascuno stato nel capitale della Bce (per cui ad ogni intervento a sostegno di uno stato devono corrispondere interventi a tutti gli altri stati in proporzione alle loro quota nel capitale della Bce), che mantengono inalterati i differenziali di rendimento dello spread, e dunque intende cancellare la flessibilità adottata positivamente negli interventi anticovid.
Ha perciò iniziato a silurare la realizzazione dello scudo, sostenendo che deve avere un carattere eccezionale ed essere attivato solo in caso di allargamento degli spread non giustificato dai fondamentali che danneggi il meccanismo di trasmissione della politica monetaria e deve essere necessariamente legato a pesanti rigide condizionalità di bilancio a carico dei paesi beneficianti, che comprendano l’obbligo ad una concomitante riduzione del debito, dicendosi però scettico sulla loro fattibilità. Queste posizioni sono un invito alla effettuazione di bordate speculative sui Paesi più indebitati da parte della grande finanza internazionale ed una concreta minaccia alla integrità dell’Eurozona.
Occorre perciò superare le resistenze, soprattutto tedesche, ed accelerare il completamento del processo di integrazione europea, dotando le istituzioni dell’Eurozona di un bilancio e di un attore fiscale in grado, ove necessario, di operare quel coordinamento con la politica monetaria la cui assenza rende zoppa l’Eurozona già in tempi normali, ma diventa esiziale in momenti in cui è in gioco la sopravvivenza della Unione Europea.
Le conseguenze del conflitto sull’Europa
Le sfide cruciali che l’Europa deve affrontare riguardano la politica migratoria (a causa del forte aumento dell’immigrazione clandestina causata dalla carestia), l’’inflazione, l’impennata dei prezzi dell’energia e la carenza dei rifornimenti, la realizzazione di un sistema alimentare sostenibile, la riduzione della dipendenza e la costruzione della propria autonomia strategica e tecnologica.
L’impatto della guerra in Europa si riflette soprattutto nella sicurezza energetica e l’Italia e la Germania saranno i Paesi più colpiti perché dipendono maggiormente dalle importazioni di gas russo. Ma il blocco, a fine anno, dell’importazione del petrolio russo determina, con conseguenze drammatiche, un forte rincaro immediato, che deriva dal fatto cha ciascuno stato cerca di accumulare grandi scorte prima del blocco, ingolfando una domanda che, nonostante l’incremento del 50% della produzione dell’Opec, resta molto superiore all’offerta, ma anche la speculazione contribuisce a far lievitare ulteriormente i prezzi determinando forti extraprofitti per tutte le imprese energetiche. Anche la fissazione di un tetto ai prezzi, proposta da Draghi e approvata dalla UE, non appare risolutiva, perché produrrà solo il risultato di una espansione di un mercato nero e una ulteriore rarefazione dei rifornimenti ufficiali. Il forte aumento del prezzo della benzina avrà pesanti conseguenze sia sulla logistica (che poi incide come un moltiplicatore su tutti i prezzi, alimentando il carovita e riducendo i consumi), che sulla pesca e su tutte le industrie energivore (acciaio e metalli, vetro, carta, meccanica, estrazione e alimentare), perché il costo eccessivo rende la loro attività non più competitiva e sostenibile. Ma preoccupano anche le attività che dipendono da forniture estere sempre più scarse (grano, fertilizzanti, carta, legno, nickel, neon, materiali edili, semiconduttori). La cosa più assurda è l’impegno al riarmo per cui occorrono materiali strategici (terre rare, indio, gallio, tungsteno, germanio, cobalto e nickel) che sono controllati da Cina e Russia.
Le drammatiche conseguenze del conflitto per l’Italia
Il conflitto peserà soprattutto sull’Italia, che ha un’economia di trasformazione ed è fortemente dipendente dall’importazione di petrolio, gas e materie prime, che vedono una folle girandola di rincari, per cui entrerà in recessione, la cui gravità dipenderà anche dalla durata del conflitto, ma le cui conseguenze si protrarranno ben oltre la sua conclusione. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, esiste un “rischio di effetti sul Pil di lunga durata anche dopo fine conflitto e si aprirà comunque una fase di tensioni nei rapporti commerciali e nei mercati delle materie prime, con inevitabili ripercussioni per un’economia fortemente dipendente dall’estero come quella italiana…i consumi saranno più deboli per via dell’inflazione che erode il reddito disponibile reale e le condizioni fiscali più stringenti raffredderanno gli investimenti. I prezzi più alti del cibo impatteranno in modo negativo sul potere d’acquisto dei consumatori, soprattutto tra i nuclei a basso reddito, e peseranno sulla domanda interna”.
Esiste un grave problema di dipendenza dalle importazioni di petrolio e, soprattutto, di gas, dalla Russia, di cui l’Italia non può fare a meno, come ammette il ministro della Transizione ecologica Cingolani, perché il suo blocco renderebbe “gli stoccaggi fermi al 40% e comporterebbe una grave recessione con la perdita di 4 punti di pil”, e che “l’autonomia totale dalla Russia ci sarà solo dal 2024”, ma il prezzo resterà comunque molto più alto nei prossimi anni. In questa drammatica situazione Draghi ha spiegato, il 6 aprile, che “noi andiamo con quello che decide l’Unione europea. Se ci propongono l’embargo sul gas e se l’Unione europea è uniforme su questo, noi saremo ben contenti di seguire”. Ma lo facciamo fino al suicidio? Draghi aveva anche sostituito la frase “volete burro o cannoni” con quella “volete la pace o i termosifoni” o addirittura l’aria condizionata, cose che in realtà non hanno alcuna relazione fra loro, mentre da Bruxelles hanno addirittura consigliato di ridurre le docce. Draghi ha anche ammonito che ci sono paesi come la Norvegia che hanno fatto profitti per “150 miliardi di dollari extra per un Paese di 5 milioni di persone”, ma ha dimenticato di dire che la sua prosperità dipende dal fatto che è un grande esportatore di petrolio di alta qualità del Mare del Nord, ora a prezzi altissimi.
L’enorme rincaro dei carburanti ha effetti molto pesanti, non solo per il riscaldamento invernale, ma soprattutto per i prezzi della logistica, che sono determinanti in un Paese come l’Italia che si affida soprattutto al trasporto su gomma e quindi non mancherà di diffondere i rincari in tutti i settori, dagli alimentari alla componentistica per l’industria, alle produzioni energivore (vetro, carta, plastica, cemento, cave, cantieri, caseifici, ceramiche, filature, fonderie, pastifici, raffinerie) che possono rendere la produzione fuori mercato. Uno studio del dal Massachussets Institute of Technology (MIT) sull’incremento dell’intensità energetica delle produzioni, ha dimostrato che i processi produttivi più recenti, come ad esempio i microchip, sono incredibilmente inefficienti in quanto a uso dell’energia e delle materie prime e consumano da mille a un milione di volte più energia per unità di peso delle produzioni tradizionali. Anche la pesca viene bloccata dal costo del carburante. La Cgia di Mestre ha calcolato che la crisi diffusa delle piccole imprese (1.300 solo quelle esportatrici),a seguito dei rincari e della mancanza di materie prime metterà a rischio, in soli 3 mesi, oltre mezzo milione di posti di lavoro, mentre 10 milioni di cittadini entreranno in povertà assoluta.
La frenata della produzione tedesca ha effetti fortemente negativi sulla produzione italiana, che funge da subfornitura, specie nel nordest, in particolare per la componentistica auto, ma incide negativamente anche sulle esportazioni agricole e sulla moda. Aumenta anche il deficit del commercio aggregato verso Russia, Ucraina e Bielorussia, con un dimezzamento dei volumi delle esportazioni e il forte aumento dei costi delle importazioni (materie prime e cereali), causato dalle sanzioni, e ciò potrebbe incidere pesantemente sull’intera bilancia commerciale italiana. In una tale situazione aumenteranno a dismisura anche le delocalizzazioni verso paesi con un minor costo del lavoro e dell’energia.
Gli effetti dell’inflazione in Italia
L’inflazione è la più alta dal 1991 e determina, in termini reali, un taglio delle spese di bilancio per beni e servizi e i trasferimenti alle imprese. L’inflazione ha già tolto alle famiglie 1.240,80 euro a gennaio, l’equivalente di uno stipendio mensile, mentre dilaga la povertà. Si abbatte su una dinamica salariale che vede l’Italia agli ultimi posti in Europa, al di sotto della media europea, come l’unico Paese in cui i salari si sono ridotti negli ultimi 30 anni (-3%), contro una crescita del 31% di quelli francesi e del 34% di quelli tedeschi. Vengono colpiti pesantemente anche i pensionati, che hanno un trattamento fiscale molto più rapace di quello dei dipendenti e la cui mancata rivalutazione sulla perdita di potere d’acquisto è permanente nel tempo e si accumula progressivamente, con una specie di bancomat che riversa soldi nelle tasche dello stato.
Va ricordato che l’inflazione agisce in modo differenziato per due motivi. Incide solo sul reddito consumato, ed ha un preciso segno di classe per cui è inferiore sui redditi elevati che possono risparmiare, mentre può essere addirittura superiore al 100% per chi non risparmia ma va a debito. Incide maggiormente sulle tariffe, gli affitti e i generi alimentari, che sono spese indispensabili e, per i redditi più poveri, lasciano poco o nessuno spazio per le altre spese. Insomma essere poveri costa caro.
Non manca poi la stangata delle sovraimposte sull’Irpef per gli enti locali. Il carovita ha determinato, in una situazione di riduzione dei redditi, un extragettito fiscale di 40 miliardi. Insomma chi più ne ha più ne metta, non c’è limite alla creatività dei balzelli. L’Iva è stata cancellata per l’esportazione di armi ma non per i beni di prima necessità. Il bonua una-tantum di 200 euro per chi guadagna meno di 35 mila euro sembra una presa in giro, pensando alla riforma Irpef 2021 che ha regalato 7 miliardi ai redditi medio-alti, cioè da 50mila euro all’anno in su. Mentre l’inflazione annuale, calcolata a marzo, è aumentata del 6,5% e i salari solo dello 0,6%, il rinnovo dei contratti è molto spesso bloccato e non recupera la perdita passata. Quattro milioni di famiglie cadranno in povertà energetica, gli sfratti si sono triplicati (senza alcun investimento in alloggi popolari), 4 minori su 10 vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo e sono molti gli anziani che, ogni estate, sono morti per il caldo, non disponendo d’un condizionatore. Occorre poi riflettere sul record registrato a febbraio di dipendenti precari. In Italia la vita è sempre più precaria, per cui i laureati fuggono all’estero e si assiste ad un drammatico calo della natalità: è un paese in via d’estinzione.
Il governo s’è impegnato con la Nato ad aumentare le spese militari dall’1,1% dl Pil nel 2014 fino al 2% del pil nel 2028, passando dai 26 miliardi di euro del 2022 ai 38 miliardi nel 2028, con una crescita di 12 miliardi all’anno, 104 milioni al giorno. Nel 2021 gli Stati europei membri della Nato hanno effettuato spese militari per 230 miliardi, quattro volte rispetto alla Russia. Con il continuo invio di nuove armi all’Ucraina, che è già zeppa di armi, se queste non finiscono alle armate naziste, vengono rivendute, come risulta da una indagine, via internet a mafie, criminali e terroristi.
Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dopo aver ricordato che siamo stati penalizzati dal Covid (e lo saremo dalle successive pandemie in arrivo) e dalla guerra, non ha trovato nulla di meglio che consigliare una riduzione dei salari, evitando di recuperare una inflazione galoppante, perché “la perdita di potere d’acquisto tenderà a contenere la domanda finale, attenuando la pressione sui prezzi”, raffreddando così l’inflazione. È un ragionamento che, oltre a rappresentare un insulto sociale, non sta neppure in piedi economicamente, e qualsiasi studente di economia può facilmente osservare che, a parte l’intollerabile peggioramento delle condizioni di vita, il conseguente declino del mercato interno, con una domanda estera in calo, aggrava ulteriormente la moria delle imprese, fuori mercato per il prezzo insostenibile dell’energia, determinando un collasso dell’economia.
Occorre recuperare davvero la perdita per il caro vita per salari e pensioni, e rinnovare i contratti scaduti, ciò serve anche alla tenuta del mercato interno, ma gli aumenti non vanno detassati, perché ciò significa la demolizione del sistema di “welfare” italiano, già scarso e ampiamente amputato. Occorre anche ripristinare un meccanismo automatico come la “scala mobile”, che non aumenta salari e pensioni, ma semplicemente ne impedisce l’erosione, e chi la rifiuta vuole semplicemente ridurne il valore.
I disastri della guerra
Crisi pandemica e guerra hanno imposto anche una brusca frenata alla transizione ecologica, aumentato gli investimenti in combustibili fossili, compreso il carbone, che è altamente inquinante. Il fondo americano Blackrock ha imboccato la linea della restaurazione fossile, sostenendo che la guerra ha posto fine alla globalizzazione e ciò rallenterà il cammino verso le emissioni zero, per cui investire nelle rinnovabili non conviene più e i titoli “verdi”, agganciati alla riduzione delle emissioni di Co 2 sono precipitati del 40% e ciò ha fatto aumentare le emissioni inquinanti.
Queste sono tutte conseguenze nefaste della crisi conclamata del vecchio modello di sviluppo della globalizzazione finanziaria della politica masochistica delle sanzioni europee alla Russia, imposte dagli Stati Uniti, che hanno progettato da tempo di spingere la Russia a questa guerra, al fine di metterla fuori gioco, costruendo una nuova “cortina di acciaio”, dotata di missili atomici, alle sue frontiere, mettendo con le spalle al muro la Germania, vietando la messa in funzione del Nord Stream 2, già costruito, per impedire la crescente cooperazione commerciale della UE con la Russia, e la conseguente creazione della prima area economica mondiale, eliminando così un concorrente pericoloso, per dedicarsi al conflitto con la Cina per la supremazia mondiale. E l’Europa sta collaborando alacremente alla propria distruzione.
Mike “Mish” Shedlock, uno dei maggiori analisti economici mondiali, sostiene che “non c’è ancora abbastanza pessimismo”, mentre trova la completa indifferenza di una classe politica litigiosa e indecente, sia italiana che europea, che si lascia coinvolgere, volonterosamente, nelle trame dei “neocons” statunitensi verso una guerra senza fine che è esiziale per l’Europa. Ma anche il sindacato sembra non aver adeguatamente compreso la portata decisiva della sfida che abbiamo di fronte e non si sta attrezzando per resistervi, proponendo e lottando per convincenti alternative di sistema. Ma il tempo sta per scadere e l’Armageddon sembra pericolosamente vicino.
Di Giancarlo Erasmo Saccoman