Appello agli elettori (e ai partiti) della Sinistra e del Centrosinistra italiani.

ll tema delle alleanze a sinistra si pone da sempre; ancora più negli ultimi anni ed è diventato rovente negli ultimi giorni dopo le elezioni in Liguria e in attesa delle elezioni in Umbria ed Emilia Romagna.

In più l’elezione di Donald Trump negli USA ha indubbiamente corroborato la posizione del nostro governo, insieme a  tutti quelli delle destre nel mondo.
In Italia ognuna delle potenziali componenti di un’alleanza delle sinistre si confronta/ scontra con le due opzioni massime: valorizzare il più possibile le proprie peculiarità o disporsi a vagliare insieme le ragioni delle altre.
Per varie motivazioni, alcuni hanno già scelto in modo apparentemente definitivo, privilegiando le proprie differenze e dando alla propria battaglia un senso identitario.
Altri hanno scelto in modo apparentemente altrettanto definitivo di caratterizzarsi come parte sinistra dello schieramento, unitario.  Modulando le parole d’ordine in modo opportuno per caratterizzarsi senza “rompere”.
La nostra Associazione, 99% – composita com’è – prova a rappresentare le istanze ed i malesseri dell’elettorato della Sinistra e del Centrosinistra che soffre dell’attuale egemonia politica – e dei costumi, delle Destre e guarda sempre alla Costituzione antifascista come garanzia di funzionalità democratica, ma anche come concreto progetto politico di crescita armoniosa della società italiana.
L’elettorato socialista e democratico e l’elettorato cristiano e sociale del nostro Paese soffrono dell’assenza di un progetto politico di coalizione che vada oltre l’idea di battere e neutralizzare politicamente le Destre e che si proponga come progetto di governo di un Paese desiderabile per tutti coloro che hanno scelto di vivere in Italia, di tutte le età, e di tutte le religioni, orientamenti sessuali e origini geografiche.
Un progetto politico di coalizione, elaborato e discusso dentro e fuori le stanze istituzionali, di cui si parli sia nei luoghi deputati della politica, sia in ogni luogo fisico o virtuale dove si incontrino le persone e che NON sia un programma elettorale pronto da votare, ma ne costituisca la premessa indispensabile.
Un progetto politico che affianchi le istanze di uguaglianza e di libertà di iniziativa, interpretandole alla luce dei problemi, delle esigenze e delle soluzioni che i tempi presenti ci mettono davanti come criticità o come risorse.
Senza dimenticare la guerra, che travestita da difesa, nasce invece da opposte volontà di egemonia globale, che si contrappongono in un gioco di provocazioni reciproche e non tengono in nessun conto la vita umana.
La nostra Costituzione ripudia la guerra. E noi la ripudiamo con Lei, senza se e senza ma: niente giustifica le violazioni del diritto internazionale e il disprezzo verso l’ONU, da chiunque siano perpetrati. I negoziati sono l’unica cura per gli antagonismi tra stati.
Noi di 99% riteniamo che senza un impegno nella direzione di un progetto condiviso sarà impossibile indurre a votare gli elettori che fino adesso si sono astenuti. Deve essere chiaro ad ogni cittadino che votando effettua una scelta reale, che avrà conseguenze significative per la propria vita e per quella dei suoi cari. Il voto perde significato e valore se destinato esclusivamente a decidere i rappresentanti istituzionali, se questi, pur eletti , non potranno  operare scelte innovative sul funzionamento della Repubblica: sulla protezione del lavoro e dei lavoratori; sul finanziamento dei servizi sociali fondamentali come la scuola, la sanità, l’assistenza ai bisogni delle persone e sulle conseguenti scelte fiscali. E noi vogliamo che la gente torni a votare.
Per questo chiediamo ai soggetti dello schieramento di Sinistra e di Centrosinistra  di avviare un confronto pubblico, proficuo e trasparente, per arrivare ad una piattaforma politica intorno a cui coalizzare persone e soggetti collettivi.
Siamo già in ritardo: non si doveva arrivare a questo punto.

Vi chiediamo di firmare questo appello e di condividerlo a chi potrebbe sottoscriverlo a sua volta.
QUI IL LINK:
https://www.change.org/p/appello-agli-elettori-e-ai-partiti-della-sinistra-e-del-centrosinistra-italiani

Che fare, adesso?

Quando le persone si muovono in gruppo tendono a a sentire stemperate le proprie responsabilità.
Chi ha detto che l’unione fa la forza ha dimenticato di aggiungere che buona parte di quella forza deriva dalla fiducia nel farla franca.
Chiunque voglia quindi evitare comportamenti indesiderati o indesiderabili dovrebbe aver cura di esaltare” la responsabilità individuale, ma per questo bisogna accettare di relazionarsi con gli individui consapevoli e spesso chi gestisce le comunità preferisce ridurre gli ostacoli alla propria azione e per cui predilige atteggiamenti gregari. In ambito politico, in cui si gestiscono collettività sociali, uno dei modi più efficaci per promuovere atteggiamenti gregari o per disincentivare assunzione individuale di responsabilità è la promozione di una scuola che prediliga l’addestramento e la trasmissione di tecniche e trascuri lo studio dei temi legati alle cause e al senso delle cose.
Da decenni si affida alla scuola la funzione di formare operatori e si disincentiva la formazione di persone autonome.

Fino a quando i meccanismi disposti per il funzionamento sociale, assicurano un accettabile soddisfacimento dei bisogni dei singoli, una società fatta di “persone semplici” rimane in stato di equilibrio. Pochi soggetti naturalmente autonomi vengono neutralizzati da meccanismi sociali inertizzanti.

Quando invece si attraversano fasi di crisi, in cui non si riesce a garantire il benessere diffuso, neanche in modo virtuale, manipolando le percezioni, allora la coesione sociale viene meno e a quel punto si aprono delle fasi dagli esiti imprevedibili: a quel punto si formano nuove aggregazioni interne alle classi dirigenti, o vecchi sodalizi propongono nuovi modi di perseguire il benessere dei singoli.

I personaggi che svolgono un ruolo da protagonista in situazioni di svolta sono detti demagoghi, parola ormai desueta, carica di senso negativo, che etimologicamente significa conduttori del Popolo.
In pratica il demagogo è la persona capace di sedurre il popolo e di portarlo in giro un po’ come il pifferaio di Hamelin induceva topi o bambini a seguirlo.

Quanto sta avvenendo alle democrazie può essere letto attraverso la lente della demagogia: le masse, deprivate di senso critico e sottoposte al grave stress derivante da un impoverimento generalizzato, vissuto come insopportabile, cercano una via d’uscita e accettano chi riesce a convincerle della bontà della propria proposta.

Dobbiamo interrogarci sulle cause della situazione presente e dobbiamo immaginare vie d’uscita alternative a quelle proposte dai demagoghi, più stabili e desiderabili negli esiti. Se fossimo stati più lungimiranti, avremmo potuto scegliere anche percorsi meno scabrosi, che evitassero il passaggio attraverso la notte della demagogia. Oggi dobbiamo mirare alla riduzione del danno in tutti i sensi, alla riduzione qualitativa del danno, alla riduzione quantitativa del danno e ancora dalla riduzione del tempo di esposizione al danno.

Non sono certo obiettivi facili, ma la definizione e la scelta di percorsi condivisi è un passaggio necessario e urgente. Sicuramente bisogna lavorare alla cura delle due criticità scatenanti: la diffusa sofferenza economica e la diffusa mancanza di strumenti di analisi della realtà.

Riteniamo che la politica debba lavorare in ogni modo possibile per curare queste due carenze e nell’attuale stato di cose, con le destre che controllano la sfera pubblica, deve iniziare a farlo senza poter contare sull’impiego delle istituzioni. La prima cura politica va indirizzata al corpo sociale, con le energie personali ed il tempo immediatamente disponibili a chi vuole veramente il cambiamento.

La redistribuzione della ricchezza non è un’eresia.

Produzione e consumo costituiscono una coppia inscindibile: il consumo di beni, servizi, energia, attenzione, accompagna tutte le fasi della vita in genere e di quella umana in particolare.

Ogni persona consuma e ogni gruppo umano famiglia, tribù, civiltà, società impiega al proprio interno soggetti che oltre a consumare producono. Infatti nelle collettività ci sono soggetti che consumano e producono e soggetti che consumano senza produrre. 

Se  guardiamo alla nostra società, rileviamo che noi stessi riteniamo normale che alcune persone si limitino a consumare senza produrre: due esempi immediati sono i bambini e gli anziani. Il confine segnato dalle età tra consumatori puri e produttori – consumatori non è netto: alla fine ai bambini più grandi e consapevoli e agli anziani ancora attivi chiediamo delle forme di produzione sotto forma di collaborazione, di produzione di servizi sostitutiva rispetto a servizi che dovremmo ottenere verso un corrispettivo: immagino l’acquisto di beni di consumo familiare da parte del ragazzino e la vigilanza sui  bambini da parte dei nonni.

La più importante parte della produzione è comunque quella collegata ad attività di tipo professionale, svolta verso un corrispettivo: il lavoro; lavoro che la nostra Costituzione mette a fondamento della Repubblica.

Nella società occidentale, dopo tante lotte e aggiustamenti e al di là delle differenze di classe, l’attività lavorativa inizia alla fine dell’adolescenza e termina all’età in cui di norma l’efficienza fisica si riduce sotto una certa soglia.

Questo tipo di organizzazione ha generato una società in cui le persone lavorano per una porzione della loro vita lunga poco più di quarant’anni, a meno di arrivare prima ad un’età in cui si presuppone una riduzione significativa dell’ efficienza fisica.

Il sistema pensionistico negli ultimi quattro decenni è diventato sempre più avaro a causa  della sequenza di riforme previdenziali restrittive portate avanti dal centrodestra e dal centro-sinistra. Le motivazioni che hanno spinto verso questi cambiamenti sono riconducibili a due grandi gruppi di argomentazioni: da un canto la volontà di ridurre la spesa pubblica, dall’altro   le maggiori aspettative di spesa derivanti dal miglioramento dell’aspettativa di vita della popolazione.

Di fatto – tranne collocamenti a riposo legati a ristrutturazioni produttive e finalizzati a una riduzione dei costi per le imprese – si è proceduto nel tempo ad aumentare l’età di pensionamento dei lavoratori dipendenti.

Ciò ha comportato nel settore privato un invecchiamento del personale stabile, che fruisce di un quadro normativo più protettivo (che comunque si è provato a espellere dai i processi produttivi con l’Impiego di diversi ammortizzatori sociali) dall’altra parte dalla precarizzazione dei nuovi assunti, effettuata con l’impiego dei nuovi istituti contrattuali cosiddetti atipici. 

Nel settore pubblico invece all’invecchiamento di lavoratori assunti nel periodo antecedente le riforme restrittive di bilancio si è associata la drastica riduzione delle assunzioni causata dal blocco del turnover, con conseguente drastico invecchiamento della forza lavoro stabile.

In sintesi ciò che è successo negli ultimi decenni è stato l’aumento sia dell’età dell’ingresso nel mercato del lavoro, sia l’età di uscita. Di conseguenza si è innalzata l’età della parte  di popolazione che lavora , incrementando il numero dei giovani inattivi, con l’intento di ridurre la porzione di popolazione  anziana inattiva.

Il motivo è evidente: i giovani inattivi sono sostentati dalle famiglie, mentre gli anziani inattivi sono a carico della  previdenza pubblica. In sostanza anche qui ci si è mossi nella direzione di privatizzare i costi sociali.

L’operazione è motivata con l’aumento del numero degli anziani, associato alla riduzione del numero dei giovani attivi. 

In effetti sarebbe anche vero che nelle nostre società il numero dei giovani tende a diminuire, però nelle argomentazioni di chi vuole aumentare l’età per i pensionamenti si ignora che la produttività di ogni lavoratore di oggi è un  multiplo della produttività dei lavoratori di un tempo, anzi  il fabbisogno di lavoro umano per effetto dell’Innovazione tecnologica si è ridotto drasticamente ed questo trend continua in modo drammatico con l’automazione e con l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale.

Le precedenti considerazioni, sia l’invecchiamento della popolazione, sia la riduzione del fabbisogno di lavoro nei processi produttivi indotto dalle innovazioni tecnologiche, indicherebbero  che  per il sostegno della terza età si  stia verificando il superamento dell’efficacia redistributiva degli accantonamenti previdenziali. Ne frattempo la capacità produttiva globale continua a crescere, trovando limiti solo nella sostenibilità ambientale e nei conflitti su scala globale.

In questo contesto si scorge l’opportunità di riflettere sulle modalità di redistribuzione del flusso di  ricchezza prodotta, e sulla questione della progressività del prelievo fiscale. L’espressione  “produzione di merci a mezzo di merci”, felice espressione usata  da Pietro  Sraffa come titolo della sua opera più nota, evidenzia la capacità del capitale di incrementare la produttività dei processi.

Il fatto è che gli capitale sì appropria in toto degli incrementi produttttivi e in assenza di meccanismi di redistribuzione fiscale ciò ha indotto una crescita delle disuguaglianze che si avvicina sempre più al livello dei sistemi di produzione conosciuti alla fine dell’Ottocento.

Oltretutto livelli di disuguaglianza eccessivamente ampi inducono evidenti disfunzioni nei meccanismi dei sistemi democratici, i quali per funzionare bene hanno bisogno che i cittadini vivano in condizioni   non solo formali di limitazione delle diseguaglianze. È più facile condizionare le preferenze politiche di una persona in condizioni di bisogno, così come è intuitivo che grandi disponibilità economiche possano essere usate per procurarsi i mezzi di creazione del consenso. Gli esempi di Berlusconi e di Trump sono lì a dimostrarlo.

Invece si è imposta una visione collettiva per cui chi è ricco non va disturbato, perché merita la sua posizione per l’impegno profuso da lui o dai suoi danti causa, mentre chi è povero merita il proprio destino, poiché non è stato abbastanza volenteroso da salire i gradini della scala socioeconomica. 

Il fatto è che sostituire le contribuzioni previdenziali con un’imposizione fiscale orientata verso le più alte fasce di reddito costituirebbe un incentivo importante all’impiego di lavoro, eliminando il cosiddetto cuneo fiscale e costituirebbe anche una riduzione dell’imposizione sui lavoratori, con un importante aumento del reddito disponibile per i consumi.

Il problema più complicato rimane andare controcorrente per  convincere un numero adeguato di persone di quella che per la cultura oggi egemonica è una vera eresia: redistribuire la ricchezza. Anche perché l’egemonia culturale dell’attuale accezione del capitalismo è tanto forte da rendere complicato anche solo  immaginare un’organizzazione della società che ne curi le criticità.

La pace si può raggiungere.

All’atto della sua costituzione Israele è stata una forzatura fatta a danno dei Palestinesi: immaginate che gente straniera si insedi nel vostro paese ed ad un certo punto pretenda di costituirvi un proprio stato. Oltretutto lo stato di un popolo più ricco di voi, protetto, dai sensi di colpa dell’Europa e protetto dagli USA che intendono farne una sorta di proprio avamposto in Medio oriente.

Quando nel 1948 l’ ONU propose la divisione dei territori della Palestina in due stati, i Palestinesi rifiutarono, ma non avevano la forza di fermare gli eventi e l’attacco degli stati arabi al neonato stato di Israele non è stato di aiuto alla causa palestinese. Di fatto la sconfitta araba confermò il fatto compiuto.

Ciò detto oggi la eliminazione dello stato di Israele (laddove realizzabile) sarebbe una forzatura della storia tanto ingiusta quanto produttiva di altre distruzioni e di altri rancori.

Immaginare un unico stato israelo palestinese dopo anni di occupazione israeliana violenta e di attacchi palestinesi feroci è un obiettivo evidentemente difficile da raggiungere. I due popoli sono nemici da generazioni e, in assenza di importanti interventi esterni ci vorrebbero generazioni dalla fine delle ostilità per avviare un percorso che porti a relazioni serene.

La costituzione di due stati nazionali contigui oggi potrebbe apparire un obiettivo meno lontano, ma in questi anni i territori destinati ai palestinesi sono stati erosi dal continuo impianto di nuove colonie ebraiche, promosse dallo stato di Israele, estremamente aggressive coi Palestinesi e spalleggiate dall’IDF, l’esercito istraeliano.

Di fatto non ci sono soluzioni prossime possibili, se non promosse con determinazione concorde dalla comunità internazionale.

La comunità internazionale dovrebbe premere in modo continuo e sinergico su Israele perché abbandoni l’ideologia tanto cara ai coloni di un diritto ebraico a quella Terra derivante dalla religione e dovrebbe premere sui palestinesi perché il diritto al ritorno trovi un soddisfacimento mediato e quindi parziale, nella considerazione della nuova realtà politica e demografica esistente oggi in Palestina.

Se queste considerazioni fossero condivise, il passaggio successivo, preliminare e necessario per un credibile processo di pace è l’assunzione di un comportamento equanime e responsabile da parte dell’ONU. Senza veti.

Negli ultimi decenni non è stato così, anzi nel dibattito politico ci si è polarizzati tra filoisraeliani e filopalestinesi, impiegando anche questa grande questione come terreno di dibattito polemico, mentre la maggior parte dell’opinione pubblica ignorava i soprusi inflitti dai coloni israeliani ai palestinesi: invasione di case private, distruzione di frutteti, molestie per strada.

Questi percorsi ci hanno condotto all’attuale fase di stallo tragico. È necessario un cambio di direzione e per farlo, per cambiare la gestione politica della questione palestinese, è utile, se non necessario, che gli attori politici più coinvolti nella genesi dell’attuale stato di cose escano di scena e che altri attori li sostituiscano: l’apporto dei liberali e della sinistra israeliana, la voce degli ebrei progressisti che in Israele e in tutto il mondo hanno protestato e protestano, chiedendo il cessate il fuoco a Gaza, devono essere premiati da una maggiore attenzione da parte della comunità internazionale

C’è bisogno di lavorare per sommare la voglia di pace della migliore parte della società israeliana alla voglia di giustizia e di libertà del popolo palestinese.

Come?

Dobbiamo approfondire e precisare il concetto di comunità internazionale.

Nello scenario attuale i governi finora sono stati attenti a mantenere l’appoggio dei gruppi di interesse, al fine di garantire la propria stabilità politica. Al di là di dichiarazioni più o meno plausibili, hanno tollerato che un esercito ben armato martellasse un territorio povero e sovraffollato provocando decine di migliaia di morti in pochi mesi. Di più: hanno continuato a fornire all’esercito Israeliano armi e munizioni da usare per continuare a colpire i palestinesi ed hanno interrotto gli usuali finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia ONU preposta all’assistenza dei profughi palestinesi.

Questo mentre tantissimi in tutto il mondo protestavano per chiedere il cessate il fuoco sulla striscia di Gaza e per questo venivano accusati di antisemitismo. In effetti il governo Israeliano è arrivato ad accusare di antisemitismo perfino l’ONU.

Ma se i governi occidentali appoggiano Israele per corrispondere alle richieste dei gruppi di interesse e così stabilizzarsi, è quella stabilità che va messa in discussione per ottenere la pace in Palestina. Serve un importante cambiamento di indirizzo dell’opinione pubblica, tale che i governi intendano che la prosecuzione dell’appoggio dell’aggressività israeliana può costargli la perdita di consensi all’interno.

Cambiare l’orientamento dell’opinione pubblica non è semplice. I governi hanno basi di consenso politico e tendono ad ampliarle con l’aiuto accorto di gran parte della stampa che li supporta. Far partire e condurre un processo di convincimento a cambiare rotta è un impegno laborioso e dovrebbe essere ordinato ed accorto. Fino adesso le proteste, specialmente nel nostro paese, sono state tanto generose quanto caotiche e scoordinate, a volte arrivando a prestare il fianco ad accuse di antisemitismo pronunciate a volte in buona fede, ma il più delle volte veicolate in modo malizioso, da parti politiche filoisraeliane a prescindere.

Invece per la Pace è necessaria una spinta sinergica di tutti coloro che la vogliono, quale che sia la nazionalità, a cui appartengono la religione che professano o l’ideologia che seguono. I numeri ci sarebbero, ma per essere efficaci vanno sommati.

Ma perché si astengono?

In qualsiasi attività umana  c’è un tempo per  preparare il risultato  ed un tempo per raccogliere i frutti del lavoro svolto. È così sin dalla preistoria, da quando si è passati dall’uomo raccoglitore – cacciatore all’allevatore e agricoltore; avviene oggi con le campagne di marketing e avveniva anche in politica coi vecchi partiti di massa, nei quali venivano coltivate analisi della società, senso di  appartenenza e si facevano crescere gruppi dirigenti.

Sin dagli anni ’80 la politica è andata perdendo pian piano il nesso tra analisi collettiva e  raccolta dei voti. Allungando la connessione tra gruppi dirigenti e base e privilegiando forme differenti di leaderismo, fino ad arrivare ai partiti leggeri, assenti dai territori, per i quali la base significativa sono gli elettori e gli iscritti, gli attivisti hanno perso  funzioni. In questo modo la politica  cerca voti in una società da cui si tiene separata. Come un’azienda fornisce beni o servizi ai clienti, così la politica offre decisioni pubbliche agli elettori

Infatti  i gruppi dirigenti di oggi,  studiano le preferenze degi elettori tramite le indagini demoscopiche e costruiscono consenso con le  tecniche del marketing (salvo il caro vecchio clientelismo, che però è un metodo disponibile soprattutto a chi governa e quindi può disporre dei fondi pubblici).

Una politica siffatta trova nel sistema elettorale maggioritario il modo naturale di competizione tra gruppi di potere contrapposti. Gruppi che hanno necessariamente programmi non troppo dissimili In quanto devono raggiungere e convincere la gran massa degli elettori, che per motivi statistici tende a stare al centro, per la difficoltà di esprimere scelte nette, subordinate a convincimenti profondi derivanti  da conoscenze approfondite o da ignoranze  pertinaci.

Però il sistema maggioritario, soprattutto nella sua versione a turno unico, è il sistema in cui la maggioranza relativa vince e diventa assoluta, ed il vincitore col 40% prende tutto.

È il sistema più efficace per allontanare le persone dal voto, costrette come sono a scegliere tra un obbligato bouquet di candidati quello che piace di piu, o spiace di meno.

Costretti come sono a bere o ad affogare, i potenziali elettori vedono appassire le loro facoltà di scelta e – a meno di non avere accesso a rapporti diretti con i candidati, futuri eletti – gli elettori si rendono conto di doversi  accontentare di quello che passano le segreterie dei partiti, oppure possono scegliere di astenersi.

E l’astensione è una malattia della democrazia.

Ho sentito argomentare che coloro che si astengono, lo fanno perché sono soddisfatti dell’andamento delle cose e ritengono superfluo andare a votare. È un ragionamento che può indurre all’ira in un Paese che è tornato luogo di emigrazione pur in presenza si un vistoso calo delle nascite. Un paese in cui non si fanno figli e da cui sempre piu spesso si fugge.
In Italia gli elettori disertano le urne perché hanno seppellito altrove le proprie speranze di miglioramento.
C’è rabbia e paura e, una volta ostracizzate le ideologie socialiste o financo socialdemocratiche, la rabbia è fagocitata dalle destre,  che nelle urne raccolgono la frustrazione degli elettori socialmente vinti e la mettono insieme ai progetti di appropriazione dei beni pubblici da parte degli affaristi e di una torma di famelici clienti e parenti.

Non è che i parassiti si accompignano solo alla destra, il fatto è che con la destra sono più evidenti per la carenza di progetti di cambiamento della società, che  contraddistingue la destra.

Tutto ciò si può curare. I popoli sono resilienti per natura; sopravvivono anche tra le sofferenze. Però serve un cambio di paradigma e, come insegnano gli epistemologi, i paradigmi cambiano insieme alle generazioni.

Probabilmente ciò è vero anche in politica.

Il sistema dell’infelicità. E la cura.

Volendo alzare lo sguardo per guardare più in là, per immaginare uno scenario diverso, è utile valutare due aspetti: le criticità del sistema mercatocentrico e i possibili percorsi di cambiamento.

Cominciamo col dire che il mercato e le ideologie che lo sottendono ha una formidabile agenzia di propaganda implicita nella pubblicità, che se è divenuta nel tempo sempre più efficace nel convincere della bontà del prodotto reclamizzato, è oramai da decenni un veicolo di formazione subliminale di consenso: si può preferire un marchio di detersivo o un altro , ma non si mette in discussione che un lenzuolo debba essere candido per poter essere steso su un letto; si può preferire il rasoio o la ceretta, il laser o altri strumenti tecnici, ma non si discute che i peli superflui debbano essere eliminati.

La pubblicità per sua natura deve parlare a quanta più gente possibile, quindi deve utilizzare codici di comunicazione quanto più universali possibile, per cui il riferimento più o meno mediato è pressoché sempre agli istinti più basici: fame, sesso, paura. Oltretutto il riferirsi alla voglia di mangiare, congiungersi, proteggersi è effettuato in modo sempre più tecnicamente raffinato, grazie a studi di psicologia dedicata che lasciano molto poco spazio alla capacità di discernimento razionale.
Per inciso possiamo dire che l’enorme sviluppo della pratica della pubblicità e degli studi dedicati, grazie anche alla grandissima quantità di fondi disponibili, ha reso questo mezzo capace di espressioni estremamente raffinate, tanto da rendere alcune performance vere e proprie forme d’arte. La qualità degli strumenti impiegati nulla, però, toglie alla sostanza manipolatoria del mezzo.

Ma la pubblicità serve ad indurre bisogni. Perciò è nata e perciò è coltivata. Ma il destinatario della pubblicità, recettore di enormi quantità di messaggi, che gli dicono che ha bisogno di quel cibo, di quell’abito, di quell’automobile, di quel viaggio, nella maggior parte dei casi non può accedere a quei beni.

E non può accedervi anche perché della ricchezza prodotta dal sistema la maggior parte delle persone non riceve che le briciole. Questo può far pensare che il sistema neoliberale, il sistema dei mercati, produca una grande quantità di frustrazione e quindi di infelicità, come prodotto di scarto.

Il dubbio che val la pena di esplorare, però, è se la frustrazione e l’infelicità non siano piuttosto uno strumento di mantenimento del sistema, purché gestite, purché indirizzate opportunamente.

Attenzione. Tutti i sistemi politici si sono basati su diverse forme di anestesia dei governati: dalle feste, agli spettacoli teatrali alle corse di bighe, ai giochi del Circo, alle religioni. Però quelle distrazioni di massa, in genere lavoravano sulle masse, che masse restavano: i popolani si incontravano, vivevano emozioni collettive, a volte si producevano in sommosse.

Una caratteristica innovativa della anestesia neoliberista dei governati è invece l’avere polverizzato il popolo, riducendolo ad una massa  di individui, una massa tanto incapace di assumere forme definite, da essere indicata come liquida.

Le occasioni di socializzazione sono praticamente avversate: anche la posizione di eventi e rappresentazioni destinate al consumo collettivo sono fruite individualmente: l’esempio della circolazione dei film passata dalle sale cinematografiche prima ai DVD e poi alla distribuzione sulle piattaforme di streaming, insieme agli eventi sportivi,  insieme ai giochi per ragazzi passati dai giochi fisici ai videogiochi di cui si è favorita l’esperienza on-line.

I personal computer, che erano già stati soppiantati nell’uso ludico dalle apparecchiature dedicate ai videogiochi, sono stati a loro volta sostituiti dal device più individuale di tutti: lo smartphone. Quest’ultimo strumento è diventato così pervasivo da riuscire a disgregare anche la compresenza tra pochi: capita a tutti di vedere persone in coppia o intere comitive stare vicino ma ciascuna intenta ad interagire col proprio telefonino.

Non è più fantascienza la proposta di partner virtuali mossi dalle intelligenza artificiale e generati dall’utente in base alle sue preferenze. Il trionfo del solipsismo.

Ovviamente per il mantenimento di una società così composta la scuola non è soltanto inutile:  è dannosa. Dopo aver reso pressoché impossibile lavorare allo sviluppo della persona, in classi pollaio seguite da persone precarie e malpagate (dove riuscivano a lavorare bene soltanto le persone estremamente motivate), si è passati a scuole votate allo sviluppo di “risorse umane” per le imprese. Scuole che coltivassero produttori non troppo fantasiosi e volitivi.

La società frutto di questo sistema è infelice e non potrebbe essere altrimenti. Le persone sono indotte a coltivare bisogni molti dei quali irrealizzabili, gli si prospettano obiettivi spesso irraggiungibili e le si convince che se non riescono è perché non hanno meritato il successo. L’unica protezione sarebbe la famiglia, spesso ridotta a coppia, a cui ci si  attacca disperatamente in assenza di altri punti di riferimento, ma anche la coppia è sottoposta a tensioni che ne aumentano la precarietà. Di fronte a una diffusa sensazione di solitudine e isolamento, gli omicidi – suicidi sono diventati frequentissimi, insieme ad altre reazioni abnormi alle situazioni conflittuali.

Tutto ciò non è un destino immutabile. Non ci si può abbandonare a questo stato di cose. Si può e si deve cambiare.
La cura sono le relazioni vere, fisiche, durature, non solo finalizzate. Una volta c’erano i partiti, o  le Chiese, le quali hanno mantenuto caratteri di superfamiglia e pur attaccate da più parti e affaticate dell’individualismo, hanno resistito meglio di altre aggregazioni.

Ma quello che è da aggiustare è il modo di produrre e quello di consumare. L’iniziativa privata è sicuramente efficace per perseguire l’innovazione ma, se non controllata, si trasforma e si muove con modalità selvagge, regolata dalla legge della giungla: pochi predatori, circondati  da gregari e poi la moltitudine delle prede. E le ultime innovazioni tecnologiche amplificano il problema.

Alla fine il tema è tornare a quell’equilibrio tra economia e politica scritto nella costituzione del ’48, bistrattata e a tratti stravolta dalle modifiche introdotte dalla seconda Repubblica: svilimento dei controlli parlamentari con legge elettorale maggioritaria, spostamento del baricentro legislativo verso le regioni, aprendo la strada a tentativi criptoscissionistici come l’autonomia differenziata. L’impastoiamento del Parlamento con la modifica dell’articolo 81. Adesso anche il tentativo di ridurre ulteriormente la funzione parlamentare e quella del Presidente della Repubblica, blindando il Governo.
Per non dire della drastica riduzione della progressività del sistema fiscale, che si aggiunge alla diffusa e tollerata evasione fiscale.

C’è bisogno di un vero riformismo, che si proponga di tornare allo spirito della Costituente, quella si aveva trovato una sintesi tra gli opposti.

Per farlo bisogna parlare alle persone e metterle in relazione ed esortarle a parlare del loro presente e del loro futuro, senza farselo raccontare da altri.

Auguri.

Salute a tutte e tutti amiche e amici miei!

Pare che un’antica imprecazione cinese consistesse nell’augurare a qualcuno di “vivere in tempi interessanti”, tanto diversi da quei tempi noiosi che si ricordano successivamente sempre con nostalgia.

Oramai è acclarato che è toccato proprio a noi di vivere “in tempi interessanti”.
Non è il tempo delle speranze affidate al lavoro di altri. È tempo di progetti: dobbiamo ascoltare, studiare e immaginare e poi parlare e convincere.

Lavoriamo tutti insieme perché questi tempi siano fecondi di pace giusta sia tra i popoli sia nella società. Non sarà una passeggiata, lo sappiamo, ma è una sfida giusta, una di quelle che dà il senso alla vita e alle amicizie.

Per tutto questo auguro a tutte e tutti noi ogni bene per queste feste e tanta serenità ed energia per l’anno che sta arrivando.

Disturberemo il manovratore.

La Costituzione repubblicana approvata dalla Costituente ed entrata in vigore nel 1948 è il risultato travagliato di una difficile sintesi , un equilibrio tra diverse culture italiane quella cattolica, quella liberale quella socialista e quella qualunquista, la quale fu un po’ il modo in cui quegli italiani, che avevano appoggiato il fascismo da posizioni defilate, erano rappresentati nella Costituente.

Un equilibrio fragile e destinato a subire attacchi continui non appena le condizioni si fossero modificate.

Certo è che se nei settantacinque anni di vigenza della Costituzione l’attenzione spesa per la sua riforma fosse stata impiegata per la sua applicazione, l’Italia oggi sarebbe un paese diverso.

Appare evidente che le modifiche della Costituzione apportate nel tempo l’abbiano resa meno coerente, meno leggibile e meno efficace rispetto agli obiettivi che si proponeva: una società in cui la politica si esprimesse non solo negli organismi istituzionali, ma anche nella partecipazione negli organismi intermedi. Una società in cui l’indifferenza, che tanti danni aveva creato nei decenni precedenti la seconda guerra mondiale fosse sostituita dalla partecipazione dei cittadini.

I tentativi di modifica della Costituzione – e soprattutto gli ultimi – sono stati tesi a ridurre il controllo parlamentare sul governo e a riduzione le occasioni di partecipazione popolare.

Tutto questo si inserisce nel flusso coerente che ha prodotto la legge sulla regolamentazione – affievolimento del diritto di sciopero e, soprattutto, la riforma del sistema elettorale in senso maggioritario.

La nostra Costituzione In effetti ha un bug: la divisione dei poteri prevista dall’ideologia illuministico liberale è resa in modo imperfetto: il Parlamento ha una funzione sovraordinata rispetto agli altri organi costituzionali, con fortissime attribuzioni di controllo sia sul potere esecutivo sia su quello giudiziario.

Questo perché il Parlamento, eletto direttamente sarebbe l’attuatore della sovranità che, recita l’art. 1, “appartiene al Popolo”. Ma questa impostazione funzionava fino alla riforma del sistema elettorale in senso maggioritario Eletto col sistema proporzionale il Parlamento era una rappresentazione fedele degli orientamenti popolari.

Il Parlamento eletto con il maggioritario, invece, istituisce un’immedesimazione tra volontà parlamentare e volontà del governo tanto forte da sostanziarsi in una liberazione del Governo dal controllo parlamentare, anzi nella trasformazione del Parlamento in una cassa di risonanza della volontà della maggioranza di governo, oltre che di un ammortizzatore capace di catalizzare su di sé la responsabilità delle scelte governative.

L’unica criticità in questo asservimento del parlamento al governo fino adesso è stata costituita dal meccanismo di elezione del Senato della Repubblica, che essendo effettuata per Costituzione su base regionale non garantisce una maggioranza uguale a quella della Camera, eletta su base nazionale. Infatti in tutte le legislature dal ’94 in poi le preoccupazioni dei governi si sono sempre focalizzate sul Senato in cui le maggioranze erano meno stabili e più risicate.

A questo punto coi partiti alleggeriti dalle ramificazioni territoriali e la rappresentanza parlamentare allontanata dai territori anche per la riduzione del numero dei parlamentari il governo è già arbitro mal controllato del gioco politico.

Per metterlo al riparo da scossoni e assolutamente fuori controllo serve soltanto depotenziare la Presidenza della Repubblica e sterilizzare la possibilità che il Parlamento tolga la fiducia.
Se entrasse in vigore la proposta di revisione costituzionale del governo Meloni, il Premier verrebbe eletto insieme al Parlamento (votato con la stessa scheda – come già i sindaci) ed i partiti che gli sono collegati otterrebbero il 55% dei seggi, anche se alle urne non avessero la maggioranza assoluta.

A questo punto, superando la sensazione di deja vu nel Ventennio, viene spontanea una domanda: con un architettura siffatta, quanto conta la volontà di un cittadino?

Basta guardare a quello che hanno prodotto i governi “stabili”: peggioramento delle pensioni, partecipazioni a guerre non volute dalla maggioranza dei cittadini, mancata lotta all’inflazione, mancata cura del territorio e contemporanei tentativi di mettere in cantiere opere faraoniche come il Ponte sullo Stretto di Messina. E tutto questo senza il rischio di essere ‘mandati a casa”.

Con la riforma Meloni si eliminerebbe anche la pallida possibilità che di fronte ad un disastro conclamato i parlamentari sfiducino il governo, inducendo il Presidente della Repubblica a nominare un altro Presidente del Consiglio.

È quello che vogliono gli italiani?

Se questa maggioranza approvasse questa revisione della Costituzione, lo vedremo al referendum.
Noi voteremo NO.

Il contrario di quello che stanno facendo.

Dall’Africa si emigra, le persone fuggono la sete, la fame, le malattie le guerre.
Purtroppo la maggior parte dei mali da cui scappano gli emigranti derivano dalle attività passate e presenti degli occidentali.

L’africa è stata per tanto tempo un luogo da cui estrarre materie prime al minor prezzo e piu di recente il luogo in cui portare gli scarti ed i rifiuti pericolosi.

In più l’africa è uno dei luoghi in cui il cambiamento climatico ha fatto piu danni, a cominciare da siccità e desertificazione.

Perciò l’espressione aiutiamoli a casa loro è intrinsecamente falsa ed ipocrita: l’aiuto maggiore per i popoli africani sarebbe lasciarli in pace. Inutile dire che le multinazionali occidentali non hanno alcuna intenzione di farlo.

Il fatto è che l’Occidente ha bisogno delle materie prime dell’Africa, ma non vuole le conseguenze critiche della propria attività.
I migranti possono essere accolti solo nella misura in cui possono essere utili: così dopo aver sfruttato le materie prime africane possiamo sfruttarne anche la popolazione.

Ma chi può condannare i giovani che dai paesi subsahariani partono all’avventura per fuggire a una vita impossibile?
Può farlosolo quella politica che ha trovato nei migranti il capro espiatorio su cui focalizzare le attenzioni dei popoli europei, a disagio per l’indebolimento dell’attività degli Stati, a cominciare dalle attività di coordinamento e regolazione della società. Il sistema economico dominante vuole stati deboli e o complici

Una società in cui il sistema economico spinge tutti contro tutti verso una competizione senza regole. Una società rinselvatichita in cui ciascuno prende ciò che può senza rispettare l’altro, in cui omicidi e violenze wulle dinn o sui piu indifesi vengono filmati e ostentati sui social. Però per le persone è tanto più rassicurante proiettare fuori dal “noi” verso il nuovo arrivato le proprie paure. In Queste narrazioni il migrante diventa il nemico perfetto.

Questa narrazione, però, ha un difetto: non può indicare una soluzione stabile. Ecco che si trova il super nemico negli scafisti, nei trafficanti di esseri umani, che gestiscono la migrazione. Ignorando che scafisti e trafficanti si limitano a trarre profitto parassitario da dinamiche che preesistono a loro e che ci sarebbero anche senza di loro: i ragazzi verrebbero via dai Paesi africani anche se non ci fossero trafficanti, anche se non ci fossero scafisti.

Se anche l’Occidente smettesse qui ed ora di sfruttare i territori africani (e non sembrano proprio intenzionato a farlo) per effetto di una sorta di inerzia, e prima che la vita neinpaesi di partenza migliori sensibilmente, oper qualche tempo le persone continuerebbero a partire dalle proprie case, in cerca di una vita migliore.

Per questo la soluzione non è trattenere I migranti di là del mare: la soluzione è eliminare i fattori che li spingono a partire e nel frattempo gestire i flussi di persone, che non possono essere fermati nei campi di concentramento. Né in quelli libici né in quelli Turchi né in quelli italiani o greci. E gestire quei flussi significa organizzarsi e accogliere provando ad integrare. Proprio il contrario di ciò che stanno facendo.

Il bello è che i cittadini sono spesso più avanti dei governi: un esempio chiarissimo sono stati i cittadini di Lampedusa, che hanno solidarizzato concretamente con I migranti.

Per questo abbiamo avviato una raccolta di firme su change.org per chiedere che agli abitanti dell’isola di Lampedusa venga conferito il premio Nobel per la pace.

Questo è il link:

https://www.change.org/Il_Nobel_ai_Lampedusani_gente_di_Pace

Ma alla fine a chi interessa la sicurezza sul lavoro?



Avere interesse per qualcosa e interessarsene, averne cura, sono due questioni diverse: la differenza tra l’una e l’altra è misurata dalla consapevolezza dell’importanza della questione per sé.

Purtroppo non pare esserci alcuna consapevolezza dell’importanza della sicurezza sul lavoro.

Non ne sono consapevoli gli imprenditori, altrimenti non spingerebbero i lavoratori a fare prima a rischio dell’incolumità (vedi Brandizzo), non toglierebbero i presidi di sicurezza dai macchinari per ridurre i tempi di lavorazione (ricordate Luana D’Orazio?) e cosi via.

Non ne sembrano consapevoli i lavoratori, che sanno di dover mettere imbragatura e casco mentre stanno sui ponteggi, ma spesso non li mettono, sanno che è obbligatorio essere autorizzati prima di salire sui binari per la manutenzione, ma pur di lavorare accettano di cominciare il lavoro prima che arrivi l’autorizzazione.

Non interessa agli uffici deputati alle ispezioni: se non sono destinati ispettori per i controlli non è certo colpa loro: si controlla ciò che si può, consapevoli che l’incidente può succedere ovunque ed in ogni momento, ma la responsabilità non può ascriversi ad un ufficio svuotato di risorse e senza mezzi.

Non interessa al politico, disposto ad approvare una legge da rivendicare in TV, ma indisponibile a perdere i voti delle imprese incrementando realmente i controlli per fare applicare le leggi. Né vuol perdere i voti dei lavoratori lasciati a casa da un’azienda che chiude, non accettando la riduzione dei margini di profitto.

Questo disinteresse per la sicurezza è solo in parte una scommessa sulla propria fortuna; è più uno dei sintomi del diffuso schiacciamento sul presente: qlla domanda “e se domani..?” “Spesso si risponde “ci penserò domani”.

Ma allora la battaglia per la sicurezza va combattuta in sede formativa. Non solo durante l’addestramento sul lavoro, o nella formazione continua. Deve iniziarsi a scuola. Da bambini.

Anche perché la cultura della sicurezza non riguarda solo la sicurezza sul lavoro, ma anche la sicurezza stradale, la sicurezza dei consumatori e questo sforzo va fatto dallo Stato, perché la società di oggi vive di effimero. Altro che sicurezza!

Se ci sarà consapevolezza , dell’importanza della sicurezza, allora cambierà tutto l’approccio.

Ma serve una forza politica che si faccia carico di questo bisogno di consapevolezza, perché, come si diceva sopra, al momento pare che in giro non interessi a nessuno. Al di là dell’ipocrisia delle dichiarazioni.