Non so cosa riuscirà a ottenere la manifestazione promossa da Michele Serra in termini di affermazione dell’utilità dell’Unione Europea per la salvaguardia dei valori della democrazia liberale; è certo, però, che questa manifestazione ha colpito in pieno i tentativi di unione delle opposizioni di sinistra e progressista, con effetti insperati per il governo italiano.
In effetti, le bordate trumpiane contro la pluridecennale alleanza tra USA e UE sono state tanto gravi da generare una diffusa sensazione di sgomento: nel bene e nel male, l’unità atlantica tra americani ed europei era considerata un punto fermo da tutti e, detto per inciso, è stata una delle cause fondamentali della gestione della crisi ucraina, prima e dopo l’invasione russa.
Quindi, è comprensibile che un intellettuale schierato per i valori progressisti come Michele Serra abbia sentito, il 27 febbraio, l’impulso di chiedere una manifestazione di adesione ai valori dell’Europa.
Bisogna anche dire che questa Europa, però, ha con i valori che proclama un rapporto non privo di discontinuità e ambiguità: la volontà popolare, che è evidentemente alla base della democrazia, più volte è stata considerata superabile. Potrebbe valere per tutti l’esempio del trattamento riservato alla Grecia nel 2014. Il leader greco Tsipras aveva combattuto per un’altra Europa, ma questa, quella esistente, lo ha rimesso al suo posto, lui e il Paese che governava.
D’altro canto, anche i diritti umani sono visti dall’UE come valori di importanza variabile: se è vero che la UE ha trasformato la Turchia e il Mediterraneo in valli insuperabili, anche a costo della morte dei disgraziati che provano a varcarli per raggiungere il “paese dei diritti”. Così come il diritto internazionale è considerato superabile se l’infrattore è un importante alleato degli USA, come Netanyahu. Con buona pace delle decine di migliaia di vittime civili a Gaza.
Rimane comunque un’opinione comune, difficilmente contraddicibile, che i diritti civili e le libertà democratiche nell’Unione Europea finora siano trattati meglio di quanto avvenga, ad esempio, in Russia, in Ucraina o in Cina (per quanto riguarda gli USA, stiamo a vedere cosa succede).
Però, da un po’ di tempo, l’UE – da sempre attenta alle ragioni della grande impresa – sta considerando l’opzione di cominciare a passare dal consumo di burro al consumo di cannoni: non paga di fornire armamenti a paesi in guerra, come Rheinmetall ha fatto con l’Arabia Saudita, ha cominciato a fornire armamenti a paesi che rischiavano di entrare in guerra, come per esempio l’Ucraina.
Oggi siamo passati a prendere in considerazione l’opportunità di produrre armi per noi, per proteggerci dalla Russia, la quale pare abbia mostrato con l’Ucraina non solo una sorta di iperreattività, ma anche un’aggressività senza limiti, almeno secondo la grande stampa europea, che ha paventato la volontà di Putin di arrivare fino all’Atlantico.
Tale forsennata aggressività si ritiene vada rintuzzata con una deterrenza adeguata, costi quel che costi.
Si è quindi deciso di approfondire, intensificare e fondere in una le politiche estere dei paesi europei? No. Non si è neppure deciso di passare convintamente alla progettazione e poi alla realizzazione di un esercito unico europeo (cosa complicata e di dubbia efficacia in assenza di un’unica politica estera). Si è invece deciso di consentire a ogni Stato di aumentare la propria spesa per armamenti, senza passare prima attraverso un efficientamento dell’aspetto complessivo, opzione che avrebbe reso estremamente più efficace la spesa attuale.
Il bello è che, per l’irrobustimento delle forze armate europee, specialmente in fase iniziale, si utilizzerà l’apparato produttivo militare-industriale americano, senza tenere conto del nuovo atteggiamento di dichiarata avversione dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Unione. Cioè, di fatto, di fronte a una chiusura degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Europea, l’Europa decide di aumentare gli acquisti presso le fabbriche statunitensi.
Il 4 marzo 2025, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato il piano Rearm EU di oltre 800 miliardi di euro, invitando i paesi membri a spendere fondi per le forniture militari senza metterli a conto dei deficit nazionali.
A questo punto, l’invito sentimentale di Michele Serra del 27 marzo, a levare alte le bandiere dell’UE, viene messo alla prova nel suo senso più profondo, giacché l’Unione Europea dei diritti e della pace si mostra con ancor maggiore evidenza come un’organizzazione in cui l’apparato militare-industriale ha un peso rilevante, se non decisivo. La domanda sorge spontanea: questa desiderata manifestazione ha ancora senso? Secondo molti a sinistra, no. E a dirla tutta, anche secondo molti che non sono di sinistra, atteso che, insieme a coloro che andranno a manifestare con la bandiera della pace, si troveranno altri a manifestare con la bandiera europea in una mano e la bandiera ucraina o quella georgiana nell’altra. Quindi, insieme, pacifisti e neo-imperialisti che non ce l’hanno fatta e sono in cerca di una rivincita.
Meglio una manifestazione che esprima con in modo netto la voglia di pace ddei cittadini europei e il rifiuto degli armamenti.