La pace si può raggiungere.

All’atto della sua costituzione Israele è stata una forzatura fatta a danno dei Palestinesi: immaginate che gente straniera si insedi nel vostro paese ed ad un certo punto pretenda di costituirvi un proprio stato. Oltretutto lo stato di un popolo più ricco di voi, protetto, dai sensi di colpa dell’Europa e protetto dagli USA che intendono farne una sorta di proprio avamposto in Medio oriente.

Quando nel 1948 l’ ONU propose la divisione dei territori della Palestina in due stati, i Palestinesi rifiutarono, ma non avevano la forza di fermare gli eventi e l’attacco degli stati arabi al neonato stato di Israele non è stato di aiuto alla causa palestinese. Di fatto la sconfitta araba confermò il fatto compiuto.

Ciò detto oggi la eliminazione dello stato di Israele (laddove realizzabile) sarebbe una forzatura della storia tanto ingiusta quanto produttiva di altre distruzioni e di altri rancori.

Immaginare un unico stato israelo palestinese dopo anni di occupazione israeliana violenta e di attacchi palestinesi feroci è un obiettivo evidentemente difficile da raggiungere. I due popoli sono nemici da generazioni e, in assenza di importanti interventi esterni ci vorrebbero generazioni dalla fine delle ostilità per avviare un percorso che porti a relazioni serene.

La costituzione di due stati nazionali contigui oggi potrebbe apparire un obiettivo meno lontano, ma in questi anni i territori destinati ai palestinesi sono stati erosi dal continuo impianto di nuove colonie ebraiche, promosse dallo stato di Israele, estremamente aggressive coi Palestinesi e spalleggiate dall’IDF, l’esercito istraeliano.

Di fatto non ci sono soluzioni prossime possibili, se non promosse con determinazione concorde dalla comunità internazionale.

La comunità internazionale dovrebbe premere in modo continuo e sinergico su Israele perché abbandoni l’ideologia tanto cara ai coloni di un diritto ebraico a quella Terra derivante dalla religione e dovrebbe premere sui palestinesi perché il diritto al ritorno trovi un soddisfacimento mediato e quindi parziale, nella considerazione della nuova realtà politica e demografica esistente oggi in Palestina.

Se queste considerazioni fossero condivise, il passaggio successivo, preliminare e necessario per un credibile processo di pace è l’assunzione di un comportamento equanime e responsabile da parte dell’ONU. Senza veti.

Negli ultimi decenni non è stato così, anzi nel dibattito politico ci si è polarizzati tra filoisraeliani e filopalestinesi, impiegando anche questa grande questione come terreno di dibattito polemico, mentre la maggior parte dell’opinione pubblica ignorava i soprusi inflitti dai coloni israeliani ai palestinesi: invasione di case private, distruzione di frutteti, molestie per strada.

Questi percorsi ci hanno condotto all’attuale fase di stallo tragico. È necessario un cambio di direzione e per farlo, per cambiare la gestione politica della questione palestinese, è utile, se non necessario, che gli attori politici più coinvolti nella genesi dell’attuale stato di cose escano di scena e che altri attori li sostituiscano: l’apporto dei liberali e della sinistra israeliana, la voce degli ebrei progressisti che in Israele e in tutto il mondo hanno protestato e protestano, chiedendo il cessate il fuoco a Gaza, devono essere premiati da una maggiore attenzione da parte della comunità internazionale

C’è bisogno di lavorare per sommare la voglia di pace della migliore parte della società israeliana alla voglia di giustizia e di libertà del popolo palestinese.

Come?

Dobbiamo approfondire e precisare il concetto di comunità internazionale.

Nello scenario attuale i governi finora sono stati attenti a mantenere l’appoggio dei gruppi di interesse, al fine di garantire la propria stabilità politica. Al di là di dichiarazioni più o meno plausibili, hanno tollerato che un esercito ben armato martellasse un territorio povero e sovraffollato provocando decine di migliaia di morti in pochi mesi. Di più: hanno continuato a fornire all’esercito Israeliano armi e munizioni da usare per continuare a colpire i palestinesi ed hanno interrotto gli usuali finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia ONU preposta all’assistenza dei profughi palestinesi.

Questo mentre tantissimi in tutto il mondo protestavano per chiedere il cessate il fuoco sulla striscia di Gaza e per questo venivano accusati di antisemitismo. In effetti il governo Israeliano è arrivato ad accusare di antisemitismo perfino l’ONU.

Ma se i governi occidentali appoggiano Israele per corrispondere alle richieste dei gruppi di interesse e così stabilizzarsi, è quella stabilità che va messa in discussione per ottenere la pace in Palestina. Serve un importante cambiamento di indirizzo dell’opinione pubblica, tale che i governi intendano che la prosecuzione dell’appoggio dell’aggressività israeliana può costargli la perdita di consensi all’interno.

Cambiare l’orientamento dell’opinione pubblica non è semplice. I governi hanno basi di consenso politico e tendono ad ampliarle con l’aiuto accorto di gran parte della stampa che li supporta. Far partire e condurre un processo di convincimento a cambiare rotta è un impegno laborioso e dovrebbe essere ordinato ed accorto. Fino adesso le proteste, specialmente nel nostro paese, sono state tanto generose quanto caotiche e scoordinate, a volte arrivando a prestare il fianco ad accuse di antisemitismo pronunciate a volte in buona fede, ma il più delle volte veicolate in modo malizioso, da parti politiche filoisraeliane a prescindere.

Invece per la Pace è necessaria una spinta sinergica di tutti coloro che la vogliono, quale che sia la nazionalità, a cui appartengono la religione che professano o l’ideologia che seguono. I numeri ci sarebbero, ma per essere efficaci vanno sommati.

Ma perché si astengono?

In qualsiasi attività umana  c’è un tempo per  preparare il risultato  ed un tempo per raccogliere i frutti del lavoro svolto. È così sin dalla preistoria, da quando si è passati dall’uomo raccoglitore – cacciatore all’allevatore e agricoltore; avviene oggi con le campagne di marketing e avveniva anche in politica coi vecchi partiti di massa, nei quali venivano coltivate analisi della società, senso di  appartenenza e si facevano crescere gruppi dirigenti.

Sin dagli anni ’80 la politica è andata perdendo pian piano il nesso tra analisi collettiva e  raccolta dei voti. Allungando la connessione tra gruppi dirigenti e base e privilegiando forme differenti di leaderismo, fino ad arrivare ai partiti leggeri, assenti dai territori, per i quali la base significativa sono gli elettori e gli iscritti, gli attivisti hanno perso  funzioni. In questo modo la politica  cerca voti in una società da cui si tiene separata. Come un’azienda fornisce beni o servizi ai clienti, così la politica offre decisioni pubbliche agli elettori

Infatti  i gruppi dirigenti di oggi,  studiano le preferenze degi elettori tramite le indagini demoscopiche e costruiscono consenso con le  tecniche del marketing (salvo il caro vecchio clientelismo, che però è un metodo disponibile soprattutto a chi governa e quindi può disporre dei fondi pubblici).

Una politica siffatta trova nel sistema elettorale maggioritario il modo naturale di competizione tra gruppi di potere contrapposti. Gruppi che hanno necessariamente programmi non troppo dissimili In quanto devono raggiungere e convincere la gran massa degli elettori, che per motivi statistici tende a stare al centro, per la difficoltà di esprimere scelte nette, subordinate a convincimenti profondi derivanti  da conoscenze approfondite o da ignoranze  pertinaci.

Però il sistema maggioritario, soprattutto nella sua versione a turno unico, è il sistema in cui la maggioranza relativa vince e diventa assoluta, ed il vincitore col 40% prende tutto.

È il sistema più efficace per allontanare le persone dal voto, costrette come sono a scegliere tra un obbligato bouquet di candidati quello che piace di piu, o spiace di meno.

Costretti come sono a bere o ad affogare, i potenziali elettori vedono appassire le loro facoltà di scelta e – a meno di non avere accesso a rapporti diretti con i candidati, futuri eletti – gli elettori si rendono conto di doversi  accontentare di quello che passano le segreterie dei partiti, oppure possono scegliere di astenersi.

E l’astensione è una malattia della democrazia.

Ho sentito argomentare che coloro che si astengono, lo fanno perché sono soddisfatti dell’andamento delle cose e ritengono superfluo andare a votare. È un ragionamento che può indurre all’ira in un Paese che è tornato luogo di emigrazione pur in presenza si un vistoso calo delle nascite. Un paese in cui non si fanno figli e da cui sempre piu spesso si fugge.
In Italia gli elettori disertano le urne perché hanno seppellito altrove le proprie speranze di miglioramento.
C’è rabbia e paura e, una volta ostracizzate le ideologie socialiste o financo socialdemocratiche, la rabbia è fagocitata dalle destre,  che nelle urne raccolgono la frustrazione degli elettori socialmente vinti e la mettono insieme ai progetti di appropriazione dei beni pubblici da parte degli affaristi e di una torma di famelici clienti e parenti.

Non è che i parassiti si accompignano solo alla destra, il fatto è che con la destra sono più evidenti per la carenza di progetti di cambiamento della società, che  contraddistingue la destra.

Tutto ciò si può curare. I popoli sono resilienti per natura; sopravvivono anche tra le sofferenze. Però serve un cambio di paradigma e, come insegnano gli epistemologi, i paradigmi cambiano insieme alle generazioni.

Probabilmente ciò è vero anche in politica.