Come chiamare il fenomeno per cui la vittima è colpevolizzata per l’evento dannoso subìto?
Il neologismo vittimicidio è gia stato creato per descrivere l’atteggiamento diffuso nella cultura patriarcale per le fattispecie che colpiscono le donne, intimidite, zittitte, maltrattate, violate, perché sarebbero state petulanti, arroganti, inquiete, provocanti.
Ma a ben vedere nel nostro Paese è in voga (e sedimentata) una cultura in cui l’Autorità è flebile e inefficace, quando non addirittura complice: il colpevole viene di fatto lasciato impunito, quando non ammirato per la sua audacia.
Come spiegare altrimenti il Fascismo, il Berlusconismo o il Renzismo?
In Italia siamo lontani dalla bigotta ipocrisia americana: Mussolini poté addossarsi in Parlamento la responsabilità politica dell’assassinio di Matteotti, il Parlamento votò che Ruby era la nipote di Mubarak e Renzi è ancora in Parlamento nonostante abbia silurato Letta dopo averlo rassicurato sul suo appoggio – “Enrico stai sereno” – ed essere stato bocciato al referendum costituzionale del 2016 “se perdo mi ritiro dalla politica”.
In Italia si depenalizza il falso in bilancio, si condonano abusi e cartelle esattoriali, si garantiscono (i colletti bianchi), ci si lamenta per le indagini della magistratura quando riguardano una persona di ceto borghese (senza integrare il personale giudiziario).
In Italia si promuovono o si lasciano al lavoro poliziotti e carabinieri implicati in indagini su fatti gravissimi (es. G8 di Genova, caso Cucchi, etc). In italia i responsabili della morte di giovani lavoratrici subiscono condanne irrisorie.
Gramsci aveva correttamente indicato nell’indifferenza il male dell’Italia, un paese pieno di Don Abbondio laici e no. Gramsci è morto senza sentire la sentenza per cui c’è stata si una trattativa con la mafia ma “a fin di bene”.
In un Paese siffatto i casi dei Matteotti, dei Gramsci, dei Libero Grassi, dei Falcone, dei Borsellino sembrano servire più come esempi da evitare che come modelli da seguire.
In questo scenario esempi come quello di Ilaria Cucchi sembrano alieni: “si è stata brava, ma io non avrei insistito tanto” e comunque queste persone vengono sfruttate, diluite, dissipate in realtà tutte italiane, in normali come Sinistra Italiana (appunto) insieme ai Sumahoro.
Quindi abbiamo – è giusto dirlo – persone che denunciano: denunciano auto in doppia fila che gli impediscono di uscire dal parcheggio, o ex compagni stalker, denunciano abusi di datori di lavoro disonesti, o intimidazioni di funzionari concussori, denunciano minacce di estortori mafiosi e ndranghetisti,
Ma poi queste persone non ottengono giustizia e neanche sono protette dalle ritorsioni.
Hanno la colpa imperdonabile di essere vittime e di chiedere giustizia e protezione allo Stato.
Perché è lo Stato il grande malato italiano: è malato di debolezza fino all’esanimità. Esanime appunto, senza spirito né volontà. In Italia la trama delle relazioni superfamiliari si esplica in organizzazioni che, quale che ne sia la natura teorica, tendono a configurarsi come clan, in senso antropologico: qualcosa di prepolitico in cui le relazioni personali e familiari superano in forza e funzione le relazioni formali dichiarate. E questo avviene nelle associazioni e nei sindacati, nei partiti e nelle comunità parrocchiali, nelle Massonerie e nell’Opus dei.
Prima i miei associati, però (per cerchi concentrici) dopo i miei amici, i miei parenti, la mia famiglia, i miei figli.
Questi non sono problemi che si risolvono facilmente o brevemente, ma, se individuati e riconosciuti, possono essere curati. E va fatto. Per rendere il nostro paese abitabile, anche per le vittime. Tutte.
Amplificando lo spessore del concetto di libertà in maniera esasperata, strumentale anche a con finalità di politiche assai discutibili e sostanzialmente mirate ad alimentare un bacino elettorale drogato, contraendo gli spazi per uguaglianza, condivisione, partecipazione, ci si ritrova con un servizio pubblico asfittico a beneficio delle privatizzazioni rapaci e voraci, con un giustizia che garantisce potere e denaro… Dobbiamo invertire i percorsi, dove la libertà, irriconoscibile, sia tuttavia in funzione dell’ uguaglianza, per un benessere collettivo anzi planetario diffuso e duraturo.